Che il Festival di Sanremo fosse un patrimonio collettivo, nessuno lo ha mai messo in dubbio. Che però potesse diventare un campo di battaglia legale tra la Rai e il Comune che lo ospita da oltre settant’anni, questo forse nessuno se lo aspettava. E invece eccoci qui, a parlare di diffide, tribunali, accuse di uso ingannevole del marchio e persino di un possibile trasloco della kermesse più amata dagli italiani.

Tutto è iniziato quando il Tar ha annullato l’assegnazione diretta dell’organizzazione alla Rai, costringendo il Comune di Sanremo a indire un bando pubblico. Una mossa legittima dal punto di vista amministrativo, ma potenzialmente devastante sul piano simbolico. Perché nella gara potrebbero partecipare anche operatori televisivi diversi dalla Rai. E Viale Mazzini è subito passata al contrattacco.

Secondo quanto riportato dall’Ansa, la tv di Stato ha notificato una diffida formale all’amministrazione sanremese, intimando di non concedere a terzi l’utilizzo del nome e dei marchi collegati al Festival. E non solo: la Rai sostiene di essere la titolare esclusiva del format televisivo della manifestazione. Non solo della grafica o del logo, ma del modo stesso in cui il Festival viene raccontato, messo in scena, presentato al pubblico.

Un’idea che sembra azzardata, ma che in realtà affonda le radici in anni di narrazione televisiva codificata. Secondo la Rai, Sanremo non è solo un evento musicale, ma un prodotto autoriale con uno stile riconoscibile: dalla scenografia al tono della conduzione, dalla scansione delle serate alle modalità di votazione, tutto sarebbe parte integrante di un “format” tutelato dal diritto d’autore.

Il timore dichiarato è che un altro operatore, vincendo la gara, possa riprodurre quella formula in modo troppo simile, generando confusione nel pubblico. In questo caso, si configurerebbe una violazione grave dei diritti d’autore. Ma c’è anche un altro scenario che preoccupa Viale Mazzini: che si utilizzi il nome “Festival di Sanremo” per promuovere un programma completamente diverso, ma mascherato da “originale”. Un uso che la Rai definisce «ingannevole», e che potrebbe far credere agli spettatori di essere davanti al “vero” Festival, quando in realtà si tratterebbe solo di un’imitazione autorizzata dal Comune.

In mezzo a questa guerra fredda legale, il Comune di Sanremo si muove su un filo sottile. Dopo la bocciatura dell’assegnazione diretta, ha dovuto aprire il bando, pur consapevole di aprire un vaso di Pandora. Ora si trova nella scomoda posizione di dover gestire una procedura trasparente senza alienarsi la collaborazione storica con la Rai, che non intende mollare facilmente l’osso.

Il rischio, nemmeno troppo remoto, è che il Festival possa perdere la sua identità. Non tanto per lo spostamento fisico — difficile immaginare Sanremo senza Sanremo — quanto per una sua trasformazione televisiva in qualcosa di diverso, magari più commerciale o più sperimentale. Un Sanremo “2.0” che però non sarebbe più quello di sempre.

Il Festival è molto più di cinque serate all’Ariston. È un rito collettivo, una macchina narrativa che ogni anno cattura milioni di italiani. È, in fondo, uno dei pochi momenti in cui la televisione pubblica riesce ancora a parlare a (quasi) tutti. Per questo la Rai lo difende come un pezzo della propria identità. Ma se davvero dovesse finire in mano ad altri, allora sì, il Festival cambierebbe pelle. E forse anche anima.