La contrapposizione tra garantismo e giustizialismo viene utilizzata dal peggiore ceto politico, economico e sociale per screditare chi ha violato e smontato i santuari della collusione tra potere criminale e potere istituzionale
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Nicola Gratteri, nella giornata della storica retata anti ‘ndrangheta ha detto il vero, quando ha sostenuto che l’operazione messa in atto contro le ‘ndrine del vibonese è seconda solo a quella messa in campo da Giovanni Falcone con il maxiprocesso di Palermo. In Calabria, invece, è certamente la più grossa della storia.
Tuttavia, una potente élite politica e affaristica e, purtroppo, anche alcuni ceti intellettuali sensibili al garantismo libertario, poche ore dopo la conferenza stampa della Procura antimafia del capoluogo, ha scatenato un attacco senza precedenti verso il dottor Gratteri, con l’obiettivo di minarne la credibilità.
Lo schema è quello ormai consolidato da tempo: la contrapposizione garantismo contro giustizialismo. Una dialettica nobile, se non fosse per il fatto che tale contrapposizione, spesso, viene utilizzata dal peggiore ceto politico, economico e sociale, per attaccare e screditare, colui che, per la prima volta, senza guardare in faccia nessuno, ha violato e smontato i santuari della collusione tra potere criminale e potere istituzionale. Ha attaccato il malcostume politico di destra e di sinistra che ha divorato e consumato questa nostra sfortunata terra.
La ‘ndrangheta e le collusioni con alcuni potenti colletti bianchi e massoni deviati hanno condizionato pesantemente questa terra. Hanno deciso di tutto: dall’assunzione dell’usciere dell’ospedale fino alla laurea degli amici degli amici presso gli atenei. Nelle ore successive all’imponente operazione giudiziaria, ne abbiamo sentito e lette veramente di tutti i colori. Qualcuno è arrivato definire questa retata, un vero e proprio rastrellamento. Altri, tra i quali un editore del nulla, è arrivato ad inviarci insulti via whatsapp, sol perché abbiamo ritenuto di trasmettere in diretta la conferenza stampa indetta dalla Procura di Catanzaro. L’accusa? Servilismo verso il Procuratore Gratteri.
Insomma, i poteri occulti e collusi, tentano di ribaltare il paradigma lecito/illecito. Tentano cioè, di far diventare Nicola Gratteri cattivo e, magari, far passare per vittime i potenti e sanguinari capi ‘ndrine che da decenni infestano le comunità del vibonese, bagnano le strade di questa povera provincia con il sangue delle loro vittime.
Noi sappiamo bene che la ‘ndrangheta è il cancro che sta uccidendo la Calabria. Sappiamo tutti, in Calabria, che questa è una terra di ‘ndrangheta. Ed è ipocrita, falso e irresponsabile, definire un’operazione giudiziaria di questa valenza contro decine e decine di criminali, dannosa per la Calabria e i calabresi, come hanno sostenuto alcuni giornalisti e qualche politico che avrebbe fatto meglio a tacere. È vergognoso tentare di screditare un Magistrato della statura di Nicola Gratteri, sol perché un pezzo di élite politica e professionale pretende di essere intoccabile.
Nicola Gratteri, da alcuni, viene attaccato per un solo motivo: aver indagato colletti bianchi della politica, delle istituzioni, delle professioni, delle forze dell’ordine. Un groviglio di poteri occulti che si relazionano con gli anelli di congiunzione delle storiche consorterie criminali.
L’operazione, dunque, è qualcosa di più e di diverso di un’operazione di polizia giudiziaria. Rinascita-Scott, rappresenta uno squarcio nel muro della rassegnazione di questa terra. Apre una speranza, soprattutto nelle nuove generazioni. Tutto ciò, non può essere letto solo con gli occhi e gli articoli del codice penale. È qualcosa di più profondo. È, soprattutto, l’opportunità di una svolta culturale per la nostra terra.
L’operazione di Giovanni Falcone a Palermo aprì la strada alla mutazione delle coscienze nel contesto siciliano di quel tempo. Purtroppo c’è voluto il suo martirio e poi quello di Borsellino, affinché la consapevolezza sulla situazione drammatica di quel contesto contagiasse le coscienze fino al punto far maturare una rivolta.
In Calabria, dobbiamo impedire che uomini come Nicola Gratteri diventino martiri, abbiamo il dovere, invece, di farli diventare sempre di più, esempi fulgidi per la rivolta e la mutazione delle coscienze di migliaia di calabresi. Nicola Gratteri, oggi, in questa regione, dove alberga sostanzialmente una classe politica costituita prevalentemente da cialtroni da un lato e imbroglioni dall’altro, è diventato un solido punto di riferimento morale della Calabria perbene.
Le somiglianze con il Giudice Falcone, dunque, sono tante, (qualcuno ha avuto il coraggio anche di ironizzare su ciò). Gratteri, infatti, come il giudice palermitano, ha toccato qui in Calabria quel terzo livello del quale aveva parlato per primo proprio Giovanni Falcone. Quel terzo livello costituito da politici, finanzieri, massoni, professionisti, imprenditori ecc. ecc. Purtroppo, appena tocchi il terzo livello, grazie anche al sostegno di network fidelizzati e pagati, inizia la gara a chi scredita di più. I buoni diventano cattivi, e i cattivi diventano buoni sotto l’ombrello del finto garantismo. Il garantismo che per “lor signori” significa “giustificazionismo”.
In fondo che c’è di male se un politico si adopera per sistemare una sentenza al Tar? E che c’è di male se ci adoperiamo per aprire la strada a questo o quell’imprenditore per vincere una gara? Chiunque è innocente fino a sentenza definitiva.
E tuttavia, non c’è bisogno di scomodare il garantismo, o aspettare una sentenza per poter affermare che questa politica in Calabria, è una vera e propria “montagna di merda”. Questi politici hanno distrutto la nostra terra. Costoro non hanno diritto a parlare di garantismo, lo può fare chi, semmai, vive la politica all’insegna del rigore e dell’interesse del bene comune. Lo può fare solo chi vive la politica come antitetica alle cricche di potere.
Sostenere che Gratteri abbia messo in atto uno show, invece, di una seria e rischiosa inchiesta giudiziaria, è un’offesa al lavoro degli inquirenti e di centinaia di servitori dello Stato. Quando poi, un’affermazione del genere la pronuncia una parlamentare della Repubblica, si comprende bene per quali motivi le istituzioni sono ormai diventate permeabili non solo alle infiltrazioni mafiose ma anche al delirio di una certa categoria di cretini.
Il maxi processo messo in piedi da Falcone (anche lui accusato di aver spettacolarizzato la giustizia) sancì 346 condannati e 114 assolti; 19 ergastoli e pene carcerarie per un totale di 2.665 anni di reclusione: il processo con più imputati nella storia dell’apparato giudiziario italiano. Circa il 25% dei coinvolti nell’operazione antimafia messa in campo da Giovanni Falcone fu smontata dal dibattimento processuale. Fisiologico, in una mastodontica macchina giudiziaria di quel tipo.
Quel processo, tuttavia, rappresentò una pietra miliare nel contrasto all’organizzazione criminale da parte dello Stato. Eppure Giovanni Falcone ricevette accuse vergognose. Falcone fu accusato di spettacolarizzare la giustizia, come detto, e fu accusato di ciò, da quei ceti di potere dominante e dai media sotto il loro controllo. Lo stesso ceto politico che con Cosa Nostra aveva convissuto per decenni, fin dagli anni del primo dopo guerra. La crocefissione di Falcone non avvenne però solo per mano dei ceti politici dominanti del potere siciliano, ben presto conobbe l’attacco dei ceti legati ad una certa antimafia che nel corso degli anni ‘80 erano diventati molto influenti.
“L’Unità” del 12 marzo 1992 con un pezzo a firma di Alessandro Pizzorusso scriveva: Falcone superprocuratore? Non può farlo, vi dico perché. Secondo l’élite di una certa sinistra dell’epoca, infatti, era troppo legato a Martelli. E dalle colonne dell’Unità si faceva il tifo per Cordova, l’ex procuratore di Palmi trasferito a Napoli. Falcone, ma non solo lui, era stato avversato, denigrato, isolato da vivo e santificato da morto. Il sindaco Orlando a “Samarcanda”, nel maggio del ’90, dopo l’omicidio Bonsignore, lo accusò di insabbiare indagini. Falcone replicò: «Se il sindaco sa qualcosa, lo dica. Ma non faccia politica usando il sistema giudiziario».
Dopo l’attentato dell’Addaura nel 1989 si insinuò che Falcone se l’era fatto da sé. Una certa antimafia aveva sempre di più alzato il tiro sul magistrato. Lo scontro si fece più duro e sempre su “l’Unità” il 23 maggio ’90 (per ironia della sorte) compare un grosso titolo in prima pagina: “Pintacuda contro Falcone: fa’ tu i nomi”. E nell’interno altro titolone: “Pintacuda: Sì, io accuso Falcone”.
Allora il padre gesuita teorizzava che il sospetto era l’anticamera della verità ma queste teorizzazioni non gli impediranno più tardi di avvicinarsi a forze politiche che candidavano e facevano eleggere personaggi sotto processo per mafia. Giovanni Falcone fu dapprima isolato, poi denigrato, dileggiato. Ancora oggi, sentire alcuni suoi storici denigratori commemorarlo fa venire la pelle d’oca. Questa è la storia.
Una storia che ha forte similitudini con gli attacchi a Gratteri oggi. Per questi motivi, noi continueremo a stare vicino editorialmente al Procuratore Nicola Gratteri, non solo perché sta ripulendo questa terra dalla feccia delle consorterie criminali, non solo perché sta colpendo senza soggezioni di sorta il potere delle collusioni, l’arroganza delle zone grigie, ma soprattutto perché da calabrese sta tentando di dare una speranza ai nostri figli. Soprattutto perché è un uomo integro. Tutto ciò con il giustizialismo e il garantismo non ha nulla a che vedere.
Pasquale Motta