L'eco mediatica sollevata dalla nostra inchiesta sul mondo del lavoro nel Tirreno cosentino non si arresta. Dopo Salvatore, operaio costretto a restituire parte dello stipendio ai suoi capi, e un altro uomo, che starebbe denunciando invano e da tempo le vessazioni subite, stavolta la nuova segnalazione arriva da un gruppo di giovani lavoratori calabresi che già un anno fa, in piena pandemia, aveva raccolto numerose testimonianze tra lavoratori di diversi settori. Quello che emerge, ancora una volta, è un quadro inquietante.

La lavoratrice stagionale

Nel file fatto pervenire in redazione, prontamente verificato, le testimonianze sono tante. Le voci, chiaramente, sono tutte camuffate, perché chi denuncia non si sente completamente tutelato. Tutti, nonostante le differenti vicende, sono accomunati dalla paura di essere scoperti dai propri datori di lavoro e di finire licenziati, e di conseguenza in un mare di guai. Ma la voglia di gridare al mondo che si è stanchi e stufi di essere sfruttati da imprenditori senza scrupoli, si fa via via sempre più grande.

Ne ha voglia sicuramente Claudia, nome di fantasia di una lavoratrice stagionale, che svela i retroscena di un mondo che dall'esterno, per certi versi, sembra una macchina quasi perfetta. «I contratti sono quasi inesistenti, i lavoratori stagionali, i più fortunati, hanno dei contratti che vanno al massimo per quattro mesi, quindi, dal periodo di giugno a quello di settembre, ovviamente non copre mai l'intero periodo di lavoro».

Nella Riviera dei Cedri, periodo di pandemia a parte, la stagione turistica può durare anche da aprile ad ottobre. «Personalmente - dice ancora la donna - mi sono trovata negli anni a fare dalle otto alle dieci ore di lavoro e sul contratto ad averne circa tre». Ma nemmeno questo basterebbe a taluni datori di lavoro: «Ho visto addirittura gente scalare uno stipendio già penoso perché qualche mio collega aveva ricevuto delle mance».

Anche il settore sanità nel mirino

«Mai percepito l’assegno per la bambina né il diritto di tornare a casa un’ora prima per l’allattamento. Malattie mai retribuite» dice invece Francesca, dipendente di un supermercato di una grossa catena alimentare, sempre nel Tirreno cosentino. Ed ancora, contratti di lavoro firmati per 20 ore settimanali che diventano anche 33, e riposi vietati. Si lavora sette giorni su sette. Prendere o lasciare.

Il file è lungo e di testimonianze ne arrivano anche dal dorato mondo della sanità calabrese. «Siamo delle pedine che servono a tappare i buchi del piano di rientro sanitario - dice Roberta -, anche se ci pagano gli straordinari, facciano doppi turni, arriviamo a lavorare anche 12 ore al giorno». E in un settore nel quale la lucidità mentale è tutto, non è affatto poca cosa.

Occorre denunciare

Il fenomeno è decisamente vasto, talmente tanto da sfuggire anche agli incessanti controlli del Fisco e della Guardia di Finanza. Ma grazie alla nostra inchiesta, si è alzata un'ondata di indignazione popolare che è arrivata fin dentro gli uffici delle istituzioni, dove tra l'altro conoscono bene certe dinamiche. 

«Denunciate -, fanno sapere le forze dell’ordine del territorio altotirrenico -, abbiamo bisogno della testimonianza diretta degli interessati». E giurano che c'è poco da temere, contrariamente a quanto si pensi. «In tema di giustizia, le vittime sono sempre tutelate e in questo caso le vittime sono i lavoratori vessati. Chi si rivolge a noi ha al suo fianco lo Stato. Solo con l'aiuto dei cittadini possiamo cambiare le cose». Non basta che trovare un pizzico di coraggio e rivolgersi alle autorità.