Anche nel settore della portualità il Piano nazionale di ripresa e resilienza dimostra il suo sbilanciamento a favore delle regioni ricche. Eppure solo gli scali del Sud sono alla portata dei convogli ferroviari più lunghi (ASCOLTA L'AUDIO)
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di Roberto Di Maria*
La portualità italiana è da sempre affidata a scelte a dir poco discutibili. I vari potentati locali tirano l’acqua ognuno al suo mulino, creando tutto tranne che un sistema interconnesso che risponda ad obiettivi comuni per adeguarsi alla globalizzazione ormai consolidata.
Nello stesso tempo, la Cina può contare su una gestione centralizzatissima, mentre i porti del nord ovest europeo costituiscono sostanzialmente un unico sistema monopolizzante in chiave gateway per il vecchio continente.
Il tanto decantato Pnrr ha cercato di superare la litigiosità e le ambizioni locali in maniera del tutto singolare. Lungi dal creare un unico sistema sinergico della logistica italiana, in grado di competere con lo strapotere nordeuropeo, ha puntato tutto su due porti, relegando la parte rimanete della portualità italiana ad un ruolo del tutto marginale. In tal modo si è concepito un insieme di investimenti che puntano a potenziare le “ascelle” del sistema, costituite da Genova e Trieste, mentre ai porti del sud rimane il compito di dedicarsi al crocierismo e poco altro.
Insomma, pesca e turismo al Sud, milioni di containers al Nord, in perfetta antitesi con i dettami della UE che, con il Recovery Plan, voleva eliminare le diseguaglianze anche all’interno dei singoli stati.
Cronaca, fin troppo annunciata, di una pianificazione a senso unico, che soddisfa i più forti politicamente ed economicamente, affondando sempre più chi sta peggio. Una scelta suicida. Si guardino, per comprenderlo, le cartine allegate, che riportano gli schemi delle principali linee ferroviarie italiane al 2017.
Nella prima sono evidenziate la capacità delle linee per “sagome”, vale a dire le ferrovie entro le quali possono viaggiare tranquillamente i containers più grandi. Nella seconda si evidenzia la capacità delle linee di far transitare treni lunghi, fino a 750 metri. Un “modulo” ormai obbligatorio in ambito europeo per le linee principali, senza il quale sarebbe impossibile fare giungere i containers scaricati nei porti fin al centro del continente.
Se non fosse già deciso tutto, e si dovesse valutare il modo di rendere competitiva la logistica italiana, non ci sarebbe alcun dubbio su quali porti privilegiare. Sarebbero certamente quelli meridionali, con preferenza per Taranto e, soprattutto Gioia Tauro.
Il perché è presto detto: i due porti sono alla portata di treni di sagoma PC/80, vale a dire quella massima. Capace di convogliare non soltanto containers di qualsiasi tipo, ma anche i tir posizionati su appositi pianali. I treni, inoltre, potrebbero raggiungere lunghezze prossime ai 750 metri. L’itinerario è quello adriatico (quello tirrenico è stato realizzato più per l’Alta Velocità che per l’Alta Capacità) che consente di raggiungere la pianura padana da Gioia Tauro via Taranto-Bari-Ancona.
Guardando la cartina di destra, quella relativa ai “moduli” appare evidente la scelleratezza di chi ha lasciato una discontinuità complessivamente breve – facilmente sanabile grazie a un vecchio progetto di Italferr tra Battipaglia e Sapri, al costo complessivamente modesto di circa 2 mld di lire dell’epoca – ostacolando il grande piano di realizzare quella “portualità diffusa” che rappresenta l’unico modo che ha l’Italia per competere con i porti del Mare del Nord e, in un prossimo futuro, con quelli dell’emergente sistema greco-adriatico orientale.
Analogamente, per portare sulla dorsale adriatica le merci di Gioia Tauro, mancano ancora diverse tratte “trasversali” che sembrano poter essere finanziate col Pnrr e il Fondo complementare. La loro assenza impedirebbe una reale crescita del grande scalo calabrese.
Nello stesso tempo, ci accorgiamo che Genova e Trieste non si trovano nella stessa condizione. Se Trieste soffre di forti limitazioni nella lunghezza dei convogli (massimo 650 m.), ma non nelle sagome, Genova sta messa male in entrambi i casi. Le linee che la collegano alla pianura padana, a 2017, sono limitatissime sia nella sagoma (PC45) sia nella lunghezza dei convogli (inferiore a 600 m.).
È proprio per questo che ci si è affannati tanto a creare il terzo valico, pur avendo a disposizione già due linee a doppio binario tra la pianura padana ed il porto ligure. Per un importo di circa 5 miliardi, ovviamente a carico di tutti gli italiani. Ma c’è di più: com’è noto, il porto ligure – a differenza di quelli di Gioia Tauro e Taranto - non può permettere l’attracco delle mega portacontainers. Anche per ragioni di bacino d’utenza.
A tale proposito, non va dimenticata la profetica dichiarazione di Federagenti che, nel 2015 affermava che le navi portacontainer di ultima generazione non avrebbero avuto convenienza a toccare l’Italia, dove non esiste un mercato in grado di garantire il carico sufficiente ad alimentare questi giganti.
Sono trascorsi sei anni e ancora, salvo rare eccezioni, le grandi navi da 18mila TEU scalano solo il Nord Europa. Né l’apertura del Terzo Valico potrà cambiare la situazione in modo sostanziale: è noto a tutti che solo grazie alla polivalenza simile a quella degli scali del Mare del Nord - l’Europoort di Rotterdam si estende su 3.600 ha, con canali fluviali, linee ferroviarie come la Betuweroute, una rete autostradale capillare per tutto il Nordeuropa e 3 Distripark - è possibile smaltire in tempi rapidi questi giganteschi carichi.
Pensare di riprodurre a Genova una struttura paragonabile a quella di Rotterdam è un’illusione. Senza contestare gli stanziamenti miliardari previsti dal PNRR – e nella certezza che sia impossibile completare i lavori per il 2026 - bisogna avere la consapevolezza della modestia dei risultati perseguibili.
Invece, per i porti meridionali pronti già oggi a costituire un gateway europeo diffuso, il Pnrr prevede pochissimo: elettrificazione delle banchine e qualche ammodernamento impiantistico. Semplicemente ridicolo.
Sarebbe bastato avviare un programma di ampio respiro, ponendosi obiettivi che vanno dalla portualità all’aumento dei posti di lavoro nel Sud, dalla crescita sociale allo sviluppo delle mille attività indotte da una rete portuale moderna per legittimare il potenziamento dei retroporti di Gioia Tauro e Taranto, creare un polo logistico di formidabile attrattività, realizzabile in pochi mesi.
In fondo, si tratterebbe della materializzazione di quel progetto, denominato “ALI” che avrebbe messo a sistema anche la Sicilia, tramite il Ponte sullo Stretto e la formidabile potenzialità di ormeggio di Augusta, pari alla somma dei due porti sopra citati. Con tanto di interporti già abbondantemente individuati e, in alcuni casi (Nola, Marcianise, Bari Lamasinata) parzialmente realizzati.
Null’altro che la messa a sistema della portualità meridionale, in logica connessione con i tratti terminali di due corridoi europei: Helsinki-La Valletta (Scandinavo Mediterraneo) e Danzica-Ancona (Baltico-Adriatico), prolungato fino a Bari. Previsioni su scala europea che risalgono al 1992 (trattato di Maastricht) poi revisionate nel 2011, ma del tutto ignorate dall’Italia, almeno per quanto riguarda la parte a sud di Roma.
Per far comprendere la colossale cantonata che si sta perpetrando, basti pensare che, in una certa misura, questo sistema logistico è già operativo: lo dimostra la stessa attività di Gioia Tauro che comincia a formare treni containers, adesso che si intravvede la possibilità di instradarli su ferro. Il porto calabrese, infatti, è stato appena dotato di un raccordo ferroviario, ovvero da quando sono stati aperti all’esercizio le poche centinaia di metri di ferrovia che lo collegano alla dorsale tirrenica, di cui ci si era incredibilmente dimenticati per decenni.
Una trascuratezza generalizzata e consueta, quando si parla del sud: non sono un mistero le mire cinesi su Taranto e persino su Augusta. Regolarmente scoraggiate per ragioni geopolitiche, ma sulla pelle dei meridionali. Si pensi alla proposta cinese, avanzata una quindicina di anni fa, di realizzare a proprie spese il Ponte sullo Stretto, al fine di implementare le infrastrutture portuali siciliane, fondamentali per gli interessi dell’Estremo Oriente.
Proposta rispedita al mittente che ha immediatamente realizzato l’alternativa del Pireo. Mentre scriviamo, cinesi, russi, kosovari e serbi lavorano ad una ferrovia che, attraverso i Balcani, collegherà il porto greco a Budapest, raggiungendo i mercati centroeuropei. Indebolendo la logistica tedesca e tagliando definitivamente fuori l’ex Bel Paese. Anche grazie agli accordi già chiusi o in via di chiusura con gli scali albanesi e montenegrini.
Un suicidio programmato con cura, quindi, frutto di scelte nazionali fallimentari che continuano ad ignorare la parte meridionale della nostra penisola: un enorme molo proteso sul Mediterraneo, mare in cui transita un quarto del traffico mondiale di containers. Un molo che farebbe del nostro paese il terminale europeo della nuova via marittima della Seta. Ma è meglio un uovo oggi che un pollaio domani.
Ai “piani alti” è stato deciso che la portualità italiana deve affidarsi a Genova e Trieste, a dispetto di decenni di crescita decisamente asfittica. Poco importa se, per renderla operativa, non basterà aspettare il 2026 e dovrà essere perennemente alimentata da risorse pubbliche. Non solo il meridione, ma l’intero Paese perderà inutilmente oltre un lustro per attrezzare due soli porti, su cui si è puntato inspiegabilmente tutto.
*Ingegnere civile, dottore di ricerca in infrastrutture dei Trasporti