Per chi ci è nato e ha percorso i suoi meandri, Reggio è un rastrello. Il suo tessuto, in apparenza uniforme e anonimo come può esserlo per una città del Meridione afflitta da un certo livello di degrado, cela in realtà un sottobosco di ambienti, persone e culture che non emerge a un primo colpo d’occhio. 

Oltre alla vitalità di un attivismo sociale che opera sotto la superficie, tra i suoi denti sono rimasti incastrati nei decenni ciottoli di varia umanità raccolta da tutta la provincia, che hanno edificato e poi popolato interi quartieri più o meno periferici.

Sono i figli dell’Aspromonte; quelli che vivevano nelle aree interne o a media valle; o quelli della minoranza greco-calabra. I parpatuli. I paddhechi, come venivano negativamente apostrofati dai reggini. Quelli che con la loro diaspora hanno frantumato una cultura millenaria e l’hanno condotta verso il capoluogo per ricominciare da (quasi) zero.

Roghudesi e gallicianesi sono scesi a Reggio con addosso la loro vergogna e lo stigma della diversità di chi parlava una lingua altra e incomprensibile e qui hanno ricominciato. «Gli epiteti con cui ci chiamavano per noi non erano offensivi, ma ci provocavano vergogna. Fu il professore Minuto, docente di latino e greco al Liceo Classico Tommaso Campanella a farci riconsiderare la nostra unicità, spiegandoci che la nostra era una lingua altra e molto antica», spiega Peppe Zindato, presidente della storica associazione Cumelca che opera per la tutela del grecanico

«Dal 1972, il bar San Giorgio – continua a dirmi Zindato nella Piazza di San Giorgio Extra dove insiste il ritrovo – è il locale dei gallicianesi. Questo rione raccoglie gran parte della nostra comunità fin da quando i primi emigrati a Reggio iniziarono a consigliare ai paesani che vivevano e lavoravano all’estero di acquistare terreni in questo quartiere, ma anche a Ciccarello, Modena, Gebbione».

Oggi però chi si appresta alla pensione, ha il desiderio di ristrutturare la vecchia casa al paese e percorrere la strada all’indietro, come conferma Pietro Caridi, membro della comunità: «Sto solo aspettando di terminare di lavorare per raggiungere mia moglie a Roghudi, dove è rientrata».


Sospesi tra la vita reggina, l’attaccamento al territorio di origine e il nuovo appeal che il greco di Calabria riveste, quella che era uno stigma sta assumendo i contorni di una prospettiva. 

Perché se è vero che le “seconde generazioni” di emigrati grecanici, pur
mantenendo saldi i legami di comunità, hanno perso quelli linguistici, la cui pratica è andata affievolendosi, l’orizzonte dell’antica lingua di Omero pare legato alla promozione turistica: «Quando gli stranieri arrivano nell’area grecanica e ci sentono parlare, pur non capendo, applaudono ripetendo che sono colpiti dalle sonorità». Per una lingua che conta oggi qualche centinaio di parlanti più o meno anziani sparpagliati tra Gallicianò, Bova e Reggio Calabria le condizioni di sopravvivenza sono dure. 

Diversa l’opinione di Carmelo Trapani, roghudese, figlio della poetessa greco-calabra Francesca Tripodi, giunto a Reggio con la famiglia dopo l’alluvione di Roghudi. La sua comunità, come i gallicianesi, si è insediata in un’area specifica del capoluogo calabrese, concentrandosi nel quartiere di Ravagnese. «La lingua deve andare avanti, pur con tutti gli ostacoli che trova oggi. La legge 482 del 1989 per la tutela delle minoranze linguistiche in Italia ha rappresentato e rappresenta un presidio importante in termini di difesa e valorizzazione delle varietà linguistiche italiane. 

Quel presidio però negli anni è stato snaturato. Sono nate decine di associazioni che non sono riuscite a operare seguendo una linea comune, ma andando in ordine sparso. E oggi ne paghiamo le conseguenze. Bisogna invece battersi perché l’insegnamento del greco di Calabria venga inserito nei curricoli scolastici. È l’unica soluzione per consentire al grecanico di non morire».