Le prime tracce del rito di autoflagellazione risalgono al 1260. In Calabria furono probabilmente introdotti dai Domenicani ad Altomonte. Ma la prima prova documentata risale al 1840 e a un uomo che, dopo una vita di lutti e sventure, decise di soffrire nel corpo oltre che nello spirito
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Vestiti con pantaloncini, maglietta a maniche corte e un fazzoletto rosso in testa, nella notte tra il Giovedì e il Venerdì Santo, a Verbicaro, i Battenti compiono, di corsa, per tre volte, il giro del paese. Lasciano le impronte delle loro mani insanguinate sui muri delle Chiese o delle case in prossimità delle quali, un tempo, esistevano edifici sacri. Si percuotono le gambe con u cardidd: un tappo di sughero nel quale vengono inserite schegge di vetro sottilissime, in numero dispari, ricavate da bottiglie rotte e tenute ferme da uno strato di cera di api.
Nessuno deve sapere chi sono, prima di dare inizio al rito, quando, in gran segreto, si strofinano le gambe con un panno di lana ruvida, shiaffeggiandole, per far, più facilmente, affluire il sangue. Ad ogni crocevia, uno o più uomini di loro fiducia, che non abbiano mangiato piccante da più giorni, spruzzano vino sulle ferite, dopo averlo riscaldato in bocca. Infine, i Battenti vanno a lavarsi nelle acque della Fontana Vecchia. Ripuliti e rivestiti si recano a chiedere perdono a Cristo, davanti al Sepolcro, per le pene che gli sono state inflitte dagli uomini.
Questo il rito forte e cruento. Ma le sue Origini? La storia ci dice che fu il perugino Raniero Fasani, seguace delle profezie chiliastiche di Gioacchino da Fiore, il primo che, nel lontano 1260, aveva trasformato l’auto-flagellazione,da rito privato, in pratica pubblica e collettiva, Nel secolo successivo, momento di grande incertezza storica, (guerre, carestie e peste), i riti incentrati sulle mortificazioni corporali si intensificarono nel tentativo di placare l’ira divina. Contemporaneamente, crescono anche i divieti. Furono, infatti, proibiti da Manfredi, re di Sicilia, e confinati in una sfera di devozione privata da papa Clemente VI.
Per la loro stessa natura, sembrano ben congeniali al secolo “barocco” e “spagnolo” per eccellenza, ovvero al 1600, in cui non mancarono neppure, come 300 anni prima, flagelli come guerre, carestie e peste. Al riguardo, lo storico Angelo Rinaldi rivela di aver rinvenuto un documento che attesta la presenza di riti di auto-flagellazione in Calabria, ad Altomonte, introdotti da frati domenicani.
È solo un caso che un convento di frati domenicani, alcuni dei quali di origine di Altomonte, fosse attivo, nel 1600, anche a Verbicaro? L’Ipotesi è suggestiva ma, così conclude lo Storico, ad oggi, non esiste alcuna prova certa che possa far risalire il rito dei Battenti di Verbicaro al XVII secolo.
Lo Studioso è, però, giunto, ad una scoperta, presso l’Archivio di Stato di Cosenza, oltremodo interessante. Siamo all’incirca nel 1840, quando il verbicarese Giuseppe Cetraro, dopo una serie di gravi lutti e sventure, decise di dedicarsi ad una vita di penitenza nella Chiesa di S. Francesco di Paola, a Belvedere, dove si batteva a sangue. Ritornato nella sua Verbicaro, Giuseppe continuò nella pratica devozionale privata, accompagnando tutte le processioni e non solo quella del Giovedì Santo.
Un sacerdote, suo contemporaneo, don Camillo Carlomagno, dichiarò che le manifestazioni devozionali di Giuseppe provocavano “chiasso” nel popolo, ovvero sconcerto. Tale giudizio ha indotto lo storico Rinaldi a ritenere che la “sorpresa”, lo scandalo che esse suscitavano non può che essere la testimonianza di una novità e non di un rito antico e consolidato.
Forse, una tradizione, che ogni anno si ripete, incominciò a diventare, solo da quel momento e ci sono tutte le ragioni per credere che Giuseppe Cetraro sia stato il primo Battente di Verbicaro.