«Se non capisci tua madre, è perché ti ha permesso di diventare una donna diversa da lei». Quella che Marco Balzano racconta nel suo ultimo romanzo “Quando tornerò” (Einaudi), è la storia non solo degli “orfani bianchi”, figli lasciati da madri che partono lontano per sgobbare come badanti, infermiere, baby sitter, ma anche delle “madri bianchi”, perché il dramma di certi addii si vive da entrambe le sponde: dalla parti di chi resta e di chi va via.

La presentazione del libro a Cosenza

Sono dolori diversi che si declinano con sfumature e risvolti a volte molto distanti. C’è la storia di Daniela che a Milano cerca di sfuggire a una vita infelice, e poi ci sono i suoi figli che guardano con rabbia una madre che è andata via e quasi non riconoscono più. È un racconto a più voci che si incastrano e si innestano e dipingono un quadro dove il cielo è a tratti scuro e a tratti rischiarato.

“Quando tornerò” è un romanzo dove si sente forte una sfumatura femminile, quando uno scrittore capisce che la voce che emerge è credibile e giusta?

«È un meccanismo misterioso, non c’è una ricetta, a dire il vero, scrivere è come accordare uno strumento, a un certo punto senti che suona bene e di fila. Una volta che Daniela ha cominciato ad armonizzare dentro di me ho solo lasciato che mi parlasse».

Il tuo romanzo diventerà un film?

«Sì, e si chiamerà come il libro. Sarà girato in parte in Romania e in parte in Italia e strutturalmente diverso dal libro che è diviso in tre voci. Nel film abbiamo ricostruito cronologicamente i fatti provando a mantenere intatte le stesse atmosfere sia leggere che forti».

È la tua prima volta come sceneggiatura, come ti senti in questo nuovo ruolo?

«Sono un carattere inquieto e curioso e mi butto sempre con piacere nelle cose nuove. Mi piaceva l’idea di scrivere in equipe con qualcuno, e questo è davvero un gruppo straordinario. È vero che come sceneggiatore devi pensare all’immagine ma in fondo io faccio parte della squadra perché non restino indietro anche le altre cose».

Sei un amante delle parole a cui hai dedicato anche un libro “Le parole sono importanti” ma ce n’è una che elimineresti dalle conversazioni comuni?

«Una domanda difficile perché è più facile parlare delle parole che si amano. Pensandoci credo che una delle parole che meno ci fanno bene è “identità” perché è rigida e schematica e ti fa pensare che chi non è identico a te sia un pericolo. La sostituirei con la parola “somiglianza” perché ispira il concetto che due persone possono essere uguali e diverse allo stesso tempo».

In pandemia i lettori, anche quelli forti, hanno avuto difficoltà a leggere e gli scrittori a scrivere, ti è successa la stessa cosa?

«È stato difficile, molto difficile per me, non lo nascondo. La scrittura in quel periodo è rallentata tremendamente. Ho avuto la fortuna di chiudere il romanzo prima che scoppiasse. Ho scritto molto sui giornali perché avevo bisogno di riflettere ad alta voce su quello che ci stava succedendo e ho ripreso a scrivere quest’estate. La lettura per me, invece, è stata un appiglio costante, un rifugio».