Sul palco il giornalista Paolo Di Giannantonio, l'archeologo Daniele Castrizio, il visual designer Saverio Autelitano, l'attrice Annalisa Insardà e il musicantore Fulvio Cama in una prodizione curata dall'Accademia dei Caccuriani
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Una storia entusiasmante, fatta di nuove scoperte archeologiche e scientifiche; di arte, mito e persino di cronaca... nera. Un romanzo, quello dei Bronzi di Riace, dal finale ancora aperto, che ha suscitato l'applauso (più applausi) del numeroso pubblico del Teatro Verdi di Padova, il più importante della città veneta. L'iniziativa era stata fortemente voluta dall'Associazione dei Calabresi del Veneto, da sempre impegnati a far conoscere le meraviglie culturali e paesaggistiche della regione di origine, con il convinta sostegno del sindaco e dell'assessore alla Cultura del Comune di Padova, Sergio Giordani ed Andrea Colasio.
Un'ora e venti di racconto che ha ripercorso scoperte archeologiche, rivisitazione di miti della Grecia del quarto secolo avanti Cristo ma anche con importanti risvolti di cronaca che potrebbe virare dal giallo... al nero. In scena, con la conduzione del giornalista Paolo Di Giannantonio, volto noto di Raiuno, l'archeologo reggino Daniele Castrizio, il visual designer Saverio Autellitano e il musicantore Fulvio Cama. La produzione, come sempre, è stata curata dall'"Accademia dei Caccuriani" presieduta da Adolfo Barone. La scena, in più occasioni, è stata tutta per Annalisa Insardà, attrice straordinariamente intensa, che ha interpretato alcuni dei momenti più intensi della narrazione. Per lei applausi ed applausi.
I due capolavori di bronzo emersero dalle acque del mare di Riace, in Calabria 52 anni fa. E da allora il loro è stato un successo di pubblico e critica sempre crescente. Gli studiosi ne hanno discusso e ne discutono ancora oggi, spesso con forti accenti polemici. Ma sono concordi nel dire che si tratta delle due statue di bronzo più belle del mondo e che risalgono al quarto secolo a. C., il periodo d’oro della civiltà magnogreca. Daniele Castrizio, coadiuvato dalla sensibilità e dalla sapienza tecnologica di Saverio Autellitano, ha spiegato che i due guerrieri vengono, senza possibilità di dubbio, dalla cittadina greca di Argos; ha ipotizzato che li abbia creati il notissimo scultore Pitagora di Reggio per onorare una ricca committenza pubblica; l'archeologo ha illustrato le straordinarie tecniche di fusione ma anche i restauri ed i rimaneggiamenti durante una vita travagliata di spostamenti e di viaggi.
Tanto per cominciare c’è la ragionevole certezza che furono portati a Roma ed esposti al Tempio di Pompeo. Ci sono fondati motivi - sulla base di analisi scientifiche e con i riscontri puntigliosamente trovati nella letteratura classica greca e latina - per ritenere che si tratti dei fratelli fratricidi Eteocle e Polinice del ciclo dei “Sette a Tebe”. Ed ancora: ci sono fondati motivi per ritenere che facessero parte di un gruppo di cinque statue impegnate a "recitare" quasi una scena teatrale, il culmine drammatico della contesa dei due fratelli per il potere a Tebe. Gli altri tre protagonisti che mancano sono la sorella Antigone, la madre Eurigania e l’indovino Tiresia.
Ma anche qui c'è un colpo di scena: ad Argos è stata trovata un'altra statua, ora in fase di restauro, che potrebbe essere proprio Tiresia. Si spera di avere a breve nuovo riscontri. Fulvio Cama, con i suoi strumenti ha riproposto la magía delle atmosfere del Mediterraneo Magnogreco che fu attraversato dei Bronzi per arrivare a Roma. «In quest caso – ha spiegato Daniele Castrizio - la scena interpretata dalle cinque statue ha voluto portare un messaggio ben preciso: la guerra porta frutti sempre amari e dev’essere evitata ad ogni costo. Ogni riferimento all’attualità odierna è lasciato agli spettatori».
Ma perché il naufragio a Riace? Sempre sulla base di studi su autori importanti si ritiene che fosse stato l'imperatore Costantino a volere le due statue nella "seconda Roma" e che avrebbe chiamato, intitolandosela, Costantinopoli. Nel tragitto, però, probabilmente a causa di una tempesta la nave che le trasportava naufragò. Ipotesi molto plausibile, questa. Ma non c'è certezza. Ed allora dobbiamo concludere, come canta Fulvio Cama, che come andarono davvero le cose: «lo sa soltanto il mare...»