Ci sono luoghi, nella nostra Calabria, che raccontano l’anima fiera del popolo a cui appartengono, edifici antichi fatti di fango e sudore, lentezza e dignità, da cui sono passati uomini e donne d’altri tempi, quelli che hanno costruito la nostra terra giorno dopo giorno, solco dopo solco.

Sull’altopiano del Poro, una lunga distesa di dolci colline nel Vibonese in cui l’azione antropica trovava posto già migliaia di anni prima di Cristo, è facile imbattersi in piccole strutture abbandonate tipiche di queste zone: i “pagghiari”. Questi casolari sono per la maggior parte ruderi abbandonati, ma ancora capaci di raccontare la vita portata avanti da quella categoria rurale che, per secoli, ha costituito la spina dorsale della Calabria.

Per la legge non sempre comprensibile dell’evoluzione umana, sono oggi piccoli nei sul volto rugoso di un anziano agricoltore in attesa dell’ultimo viaggio. Il primo impatto li fa apparire come cattedrali nel deserto della modernità, simboli muti di un territorio, in attesa di essere notati da qualcuno che li prenda a cuore e li faccia rivivere. Sono centinaia, molti abbandonati, altri ancora sfruttati come ricoveri per attrezzi, pochissimi recuperati e vissuti per come dovrebbero.

Inizia il viaggio

A guidarci nel nostro viaggio alla riscoperta di questi piccoli gioielli architettonici, è Antonio Furchì, docente e architetto di Drapia, che ha condensato l’amore per essi in un’articolata tesi di laurea: «Qui sull’altopiano del Poro siamo a circa 700 metri sul livello del mare e ci troviamo di fronte a tecniche costruttive diverse da quelle costiere: veniva utilizzata la pietra, sottoposta a lavorazione per dare la forma voluta e poi incastrata una sull’altra e tenuta insieme da una malta di calce. Sul litorale, invece, si usava la “bresta”, cioè il mattone di fango e pula impastati insieme e poi essiccato al sole. E questo perché la terra a questa altitudine non si prestava alla lavorazione essendo troppo friabile».

Antonio ci mostra da vicino quanto illustrato: i conci di tufo sono disposti uno sull’altro in maniera disordinata ma legati alla perfezione e danno vita a un piccolo tempio in cui veniva celebrata la vita quotidiana: «Si tratta di un'architettura a carattere rurale – ci spiega -, non c'è stata mai un'operazione residenziale, tranne d’estate, quando ci si spostava dal paese e si viveva qui, in case molto fresche e vicino ai campi da coltivare».

La vita quotidiana

Immaginiamo anche frammenti di quel vissuto, accompagnati dalle parole dell’architetto: «Interessante notare come, a seconda delle esigenze, la struttura veniva ampliata. Si partiva da un'impostazione di base costituita dal blocco centrale a una falda e poi si aggiungeva la “pinnata” o la “pagghiarola”, la struttura laterale che serviva come ricovero estivo delle vacche o degli asini, indispensabili per il sostentamento». Nel portico del primo casolare visitato troviamo ancora i segni degli animali, costituiti dai fori in cui venivano fatte passare le corde, e dalla mangiatoia, ormai abbandonata ma ancora parlante.

Gli interni erano altrettanto spartani, improntati al pragmatismo: «Generalmente avevano un piano terra dove c'era a “mangiatura”, cioè il ricovero delle bestie in inverno, e sopra si viveva, su un piano spesso costituito da tavole in legno dove si poteva mettere anche il fieno. Di solito non erano strutture con scale posticce in legno, ma in pietra, sempre esterne, e per le quali si lavorava la pietra a cuneo in maniera tale da formare un arco per sostenere tutta la struttura dei gradini».

Fondamentale era poi l’approvvigionamento idrico: «Tutte avevano vicino un pozzo costruito sempre in pietra con una struttura ad anello che terminava a “tolos”, a cupoletta, e in cima c’era anche l’alloggio per la “bumbuleja”, una piccola anfora che serviva per raccogliere l’acqua».

Ma la quotidianità non era fatta solo ed esclusivamente di lavoro, era necessario curare anche l’anima: «Molto importante era il carattere religioso: all’interno o all’esterno si trovava sempre una nicchia in cui veniva esposta l’effigie sacra: quelli di Caria (frazione di Drapia ndr) avevano la Madonna del Carmelo, quelli di Spilinga San Michele Arcangelo, quelli di Zungri la Madonna della Neve, e così via».

La fine di un’epoca

Retaggi antichi sopravvissuti al tempo, testimoni di giornate scandite da colpi di zappa e schiene curve sui campi, ma che oggi sono squarci desolati sul territorio: «Dagli anni sessanta in poi è venuto fuori il blocco di cemento: in modo molto veloce si tirava su la struttura senza dover lavorare la pietra o la bresta. Quella è stata un po' la morte di questi casolari».

Un patrimonio da salvare

Un declino che sembrava scritto nel destino di chi nasce in questa terra: «Qui intorno abbiamo delle dolci colline, non è un paesaggio piatto, brullo, povero, mi fa un ricordare quello che potrebbe essere un territorio toscano, dove c'è stato un grande interesse nel recupero e nella valorizzazione delle architetture rurali. Qua invece è tutto in stato di abbandono, non si è in grado di comprendere il valore del patrimonio che abbiamo in mano».

 

E, in effetti, ciò che balza maggiormente agli occhi è la condizione di incuria a cui sono lasciate queste perle: soffitti crollati, muri che sembrano colpiti da terremoti, porte divelte. È un colpo al cuore toccare con mano l’indifferenza nei confronti di quelli che potrebbero essere considerati i trulli calabresi e che, con un minimo di impegno e lungimiranza, potrebbero continuare a sfamare la popolazione, come fu anche nel recente passato: «In altri luoghi negli ultimi tempi si sono viste forme di turismo legate a una sorta di albergo diffuso: tutte queste tipologie vengono riprese e date in affitto. È triste vedere come non siano né valorizzati né tantomeno conosciuti. Pensate quanti giovani potrebbero provare a sviluppare un tipo di turismo che in questo momento non esiste e che potrebbe essere il futuro di questa terra. Spero tanto che questo reportage possa servire a smuovere le coscienze, perché, per amare qualcosa, prima di tutto la devi conoscere e questo potrebbe essere il mezzo giusto».