Con il suo libro Più uno, l’ex direttore dell’Agenzia delle Entrate lancia un appello alla cittadinanza attiva: «Non possiamo limitarci a osservare. È tempo di esserci, tutti»
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Ernesto Maria Ruffini, già direttore dell'Agenzia delle entrate, è una figura di primo piano in queste settimane, soprattutto perché da più parti viene visto come un riferimento politico per il futuro dei moderati di centro sinistra. Intanto sta ottenendo un importante successo con il suo libro Più uno, che sta animando il dibattito da una parte all’altra del paese.
In Più uno di Ernesto Maria Ruffini, improvvisamente sembra di ritrovarsi in un altro tempo, lontanissimi dai toni sguaiati di oggi, dalle urla e dagli insulti quotidiani. Sembra essere un progetto di rinascita civile, di impegno misurato e colto. Una piccola rivoluzione gentile. È così?
«È sicuramente una riflessione, spero sia gentile. Più che una vera e propria rivoluzione è un invito a ricordarci dell’uguaglianza, della sua essenza. È riconoscere che ognuno di noi, nessuno escluso, è una parte importante, anzi essenziale, nel grande disegno della nostra società, del nostro Paese. “Più uno” significa che siamo tutti insostituibili. Ognuno di noi è una tessera di quel grande mosaico che rappresenta la nostra comunità. Per cambiare la politica, per costruire insieme agli altri le risposte che servono al nostro futuro».
Lei invoca il ritorno alla democrazia che discute, si confronta sulle complessità, e dialoga con le diversità. Sembra punto fondante del suo manifesto politico.
«La parola “dialogo” rappresenta uno strumento che è servito a crescere in un continente pacificato in cui le nazioni – dopo essersi fatte la guerra per secoli – hanno iniziato a vivere in pace, cooperando in nome di un comune interesse superiore. Politici di formazione popolare da Adenauer in Germania, Schuman e Monnet in Francia, a De Gasperi in Italia, furono in grado di trasformare le macerie della guerra in un’occasione di dialogo e rinascita, sia politica che sociale.
Oggi Papa Francesco ci ricorda che è possibile costruire la convivenza nei popoli e tra i popoli solo con la cultura dell’incontro, del dialogo.
La nostra politica, invece, sembra ripiegata su sé stessa, impegnata nella propria autoconservazione e incapace di dialogare con le energie positive del Paese».
“Più uno”, non è solo il titolo del libro, ma è un invito all’impegno diretto, in prima persona. Come dire: nessuno resti a guardare, è il momento che tutti scendano in campo per cambiare la politica, ma alla fine per cambiare il paese. È una chiamata netta e chiara. O no?
«È un appello a riscoprirci parte di una comunità. È un invito a prenderci cura del nostro Paese. È una chiamata a riaffermare la propria passione politica per progettare e costruire insieme il futuro e non stare fermi ad aspettarlo o, peggio, subirlo.
Se la politica non si apre alla maggior partecipazione dei cittadini, non rinuncia solamente alla metà degli elettori, ma rinuncia alla sua stessa ragione di essere. Perché in una democrazia la politica è il campo di tutti o non è una democrazia compiuta. Gli esempi positivi in Italia sono tutte quelle persone che nonostante la fatica della crisi e la paura del futuro continuano a fare la loro parte: gli insegnanti, i medici, chi dedica il suo tempo nel volontariato. Anche questo è fare politica incidendo nella comunità in cui si vive.
Ma non è solo questo. Non può essere solo questo. Non possiamo pensare la politica come un qualcosa da cui tenersi lontani. Siamo tutti chiamati a provarci, a esserci».
Paolo VI, un grande papa riformatore, parlava della politica come ‘la più alta forma di carità’. Cioè di servizio. Francesco da tempo invita i cattolici a tornare a fare politica direttamente, senza più delegare altri o stare lontani a guardare. Lei chi chiama all’appello? i cattolici, i laici, la società civile?
«La chiamata è collettiva, l’impegno deve essere collettivo. Alcide De Gasperi, volendo spiegare il significato del referendum tra monarchia e repubblica, pose l’accento sulla responsabilità che gli italiani si sarebbero caricati sulle spalle se avessero smesso di essere sudditi e avessero scelto di essere i cittadini. Dal modo in cui si interpreta l’essere cittadini dipende la storia di un Paese.
Deve però essere chiaro, e non solo ai cattolici, che il primo punto di un’agenda politica deve essere la qualità della democrazia. Ma la qualità non può prescindere dalla più ampia partecipazione possibile di ogni persona alla vita politica».
La democrazia senza popolo finisce per morire. Siamo scivolati sotto il 50% degli elettori, e non ci sono segnali di ripresa della partecipazione. Ma la politica non sembra preoccuparsene, mentre i partiti sono ormai solo sulla carta. Lei ha un’idea di cosa si possa e si debba fare per convincere gli elettori?
«Dietro la parola elettori ci sono persone che vivono con grande fatica le paure del nostro tempo. Persone che vedono sgretolarsi le certezze che la politica, in altri tempi, ha spesso saputo difendere. Mentre la classe dirigente attuale non riesce a trovare una quadra per dare risposte chiare alle domande complesse della nostra società.
La sensazione è quella di una “democrazia dell’incertezza” che colpisce il sistema politico occidentale, perennemente sotto attacco di populismi e autocrazie incuranti delle regole.
Per rispondere a questo inevitabile stato di sfiducia da parte dei cittadini bisogna ripartire dalla parola Europa, l’Europa significa “futuro”. Qualsiasi altra definizione politica appartiene al passato.
In Europa noi difendiamo e promuoviamo la scuola libera e gratuita e di qualità per tutti i bambini e le bambine, una scuola sicura dove nessuno si sente mai minacciato per la propria vita. Noi difendiamo e promuoviamo la libertà di essere curati gratuitamente, perché pensiamo che il diritto alla salute sia universale. Questi valori sono un volano per la partecipazione.
La politica è in grave difficoltà ovunque. La gente sembra non credere più in niente e nessuno. Mentre i partiti hanno perso credibilità. Una delle ragioni fondative della politica è il desiderio di costruire il mondo nel quale ci piacerebbe vivere. Ed è proprio la capacità di immaginare e raccontare quel mondo che è alla base della partecipazione dei cittadini.
Il problema è che da lungo tempo la politica ha smesso di raccontare il sogno di un Paese condiviso, una storia comune nella quale rispecchiarsi, un’identità in cui riconoscersi. Ha preferito rinunciare al suo valore profetico e limitarsi a intercettare gli interessi particolari dei cittadini, accontentandosi di vedute corte e di un respiro altrettanto corto.
È davanti a tutti quanto la Storia si stia dispiegando davanti ai nostri occhi. Credo, parafrasando Bob Dylan, che i tempi stiano per cambiare. Affinché cambino in meglio, dobbiamo esserne tutti parte».