A scrivere certe storie è stata la mano del Diavolo intinta nell’inchiostro indelebile delle dicerie. Il rumore di uno scricchiolio, una finestra che si apre anche se non tira un alito di vento, un’ombra colta con la coda nell’occhio all’incrocio di un corridoio, sono farina per il pane del folklore. La suggestione, la paura, riescono a sagomare un cappotto appeso all’uncino, restituendogli la foggia d’un monaco che aspetta che faccia buio per mordere i piedi.

Il mondo dei vivi e quello dei morti sono saldati dall’immaginazione fervida di scrittori, cineasti che dalle tradizioni popolari continuano ad attingere a piene mani. La Calabria ha le sue manifestazioni ultraterrene tramandate da bisbigli e passaparola. E c’è sempre qualcuno che giura, con croce sul cuore, che ha visto sul serio uno spirito aleggiare in certe stanze o che la storia raccontata da un amico di un cugino, è proprio vera.

A Catanzaro, il ponte dei sospiri è quello di Siano. Si narra di un giovane precipitato lì nel vuoto nei primi anni Trenta. Una tragedia che venne bollata come il suicidio di un ragazzo triste. L’anima della vittima, vagando senza pace, entrò nel corpo di una donna che si precipitò dagli inquirenti snocciolando la verità: non di morte volontaria s’era trattato, ma di una rapina andata male che aveva portato quattro manigoldi a gettare dal ponte l’uomo. Nessuno le credette.

Sempre a proposito di ponti, il più celebre zampino messo dal diavolo ci porta a Paola, provincia di Cosenza. La leggenda, che miscela sacro e mito, racconta di San Francesco, il celebre taumaturgo, che col demonio sarebbe sceso a compromessi pur di edificare il ponte nei pressi del Santuario. In cambio dell’aiuto, Satana chiese l’anima del primo viandante che si fosse trovato ad attraversarlo. Il Santo accettò e una volta che la costruzione fu terminata fu un cane a traversarlo per primo. Per la rabbia il Diavolo tirò un calcio così forte da lasciare l’impronta.

Sullo Stretto, a Reggio Calabria, grandi storie oscure avvolgono come una nebbiolina Villa Gullì chiamata con la dizione da classica horror story: Villa dei Fantasmi. Vediamo po’ di storia, appena un po’. La dimora venne edificata nel lontano 1753 e dopo un periodo di fasti cadde in disgrazia. Le sue luci si spensero nel 1943. Da quel momento si mormora che uno spirito vaghi senza pace per le sue stanze. L’ombra è solita ricondursi all’identità di tal Vincenzo, antico proprietario della dimora, bruciato vivo dai nazisti. Sono in molti a giurare di aver scorto un uomo molto magro e alto passeggiare per i corridoi con un pastrano nero indosso, mentre un pianoforte chiuso e impolverato, emette delle note struggenti. Si dice anche che non sia la figura di quell’individuo la sola presenza inquietante, ma che ad esso si affianchi quella di un bambino che chiama ossessivamente sua madre. 

Noto ai cacciatori di spiriti e favole nere, è il castello di Pizzo. Lì il folklore si inanella con la storia. Il fantasma che vaga tra le sue mura non è di uno qualunque ma sarebbe l’anima in pena di Gioacchino Murat, fucilato nel maniero. Murat conobbe ascesa e disgrazia. Cognato di Napoleone (sposò sua sorella) e grande condottiero, non era ben visto dai porporati. Gli intrighi della politica lo videro prima alleato e poi nemico di Bonaparte e quando Murat tentò di riconquistare Napoli s’imbatté in chiari segni di sventura. Il viaggio verso il sud, alla testa di 250 militari, si trasformò in un dramma collettivo a causa di una violenta tempesta che uccise molti uomini. Arrivato a Pizzo, tradito come Cristo da Giuda, dal suo capo battaglione, Murat venne individuato, arrestato e infine giustiziato. Era il 1815 quando davanti al plotone disse: «Non mirate al volto ma al cuore. Fuoco!». Un mistero aleggia sulla sepoltura: qualcuno vuole il suo corpo riposare nella Chiesa di San Giorgio del Castello, altre fonti riportano che il suo cadavere venne brutalmente gettato in una delle fosse comuni di Pizzo, senza testa. Tanto è bastato ad alimentare i racconti di chi giura di sentire rumori di catene provenire dall’interno del Castello, accompagnate da un’ombra che dentro vaga mentre porte e finestre si aprono e chiudono di continuo. 

Altro fantasma eccellente può vantare Lamezia Terme. Enrico VII di Hohenstaufen nel 1240, fu rinchiuso dal padre Federico II nel maniero per due anni. Tra il primogenito e il genitore non scorreva buon sangue, sebbene fosse lo stesso. Dopo un atto di disobbedienza bollato da re come tradimento Enrico VII fu arrestato e in seguito a un processo sommario venne dapprima condannato a morte e poi al carcere a vita. La sua detenzione fu itinerante e toccò anche la fortezza di Nicastro dove alcuni giurano che perì. Ancora oggi sono tante le persone che nelle notti di luna piena giurano di sentire forti gemiti riecheggiare dal castello fino alle porte della città.

Restando in tema castelli a Crotone un vecchio barone continua a lamentarsi in giro per i corridoi del maniero intitolato a Carlo V. La sua è una storia, neanche a dirlo, molto triste, in cui a una morte violenta (gli amputarono una mano e gli cavarono gli occhi) per molti seguì un’eternità tormentata. Così il nobile continua a trascinarsi per le scale in pietra senza trovare riposo.

Anche le streghe fanno la loro parte alle latitudini calabresi. A Curinga, la storia della “magara”, continua a circolare di bocca in bocca. La megera è lo spauracchio usato per spaventare i bambini del posto, «non farlo o chiamo la “magara”…» dicono. E a Melissa (Crotone) si racconta, addirittura, di un fenomeno di “transumanza” malefica, in quanto le streghe qui avrebbero trovato rifugio in fuga da Benevento, mescolandosi agli autoctoni per secoli e secoli.

In provincia di Cosenza, a Cirella Vecchia, un’epidemia costrinse gli antichi abitanti a trasferirsi dalla montagna fino a raggiungere il mare. Inizialmente i sopravvissuti cercarono di resistere nelle proprie abitazioni ma furono urla disperate che si levavano nottetempo a costringerli a fare fagotto. Eppure gli avventurosi che si recano ancora oggi lì, giurano di sentire, di tanto in tanto, strazianti grida.

Chiudiamo questo piccolo viaggio nel paranormale folk con la storia di Palmi. Esiste una grande roccia da quelle parti chiamata “Scoglio dell’isola”. Lì, si racconta, una donna, la principessa Canfora, si gettò nel vuoto per sfuggire ai saraceni. Nessuno seppe mai che fine avesse fatto il suo corpo che non fu mai rinvenuto. Ma a guardar bene, nelle notti di luna piena, proprio quel tratto di fondale in cui si dice sia precipitata la donna, risplende di pagliuzze luminose, come lacrime rese diamanti dal più potente mezzo di comunicazione: le favole