VIDEO | Morì a soli 32 anni a fine ottobre 1981, dopo che si era opposto alle richieste estorsive della 'ndrangheta. Alla presenza delle più alte autorità locali, nel paese tirrenico del Cosentino è stato inaugurato un mosaico che lo raffigura realizzato dagli studenti del liceo artistico di Cetraro
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«L’arte è un segno evidente che si tratta di una sfida anzitutto culturale». Così, don Ennio Stamile - sacerdote della diocesi di San Marco Argentano/Scalea - a proposito del mosaico che, realizzato dagli studenti e da alcuni docenti del liceo artistico di Cetraro, è stato scoperto in contrada Zaccani (bivio per S. Iorio) ad Acquappesa. Un’opera raffigurante il volto di Lucio Ferrami, imprenditore di origini lombarde che, oltre ad aver avviato una florida attività nel settore dei materiali da costruzione, era riuscito a radicarsi sul Tirreno cosentino insieme alla sua famiglia, ucciso il 27 ottobre 1981 per mano mafiosa, a soli 32 anni, perché denunciò alle autorità le richieste estorsive subite dai clan imperanti a quel tempo lungo la costa.
«Questa sfida contro il malaffare - ha proseguito Stamile - contro la ‘ndrangheta, che è una subcultura, la possiamo vincere se consapevoli tutti, che questa sfida è innanzitutto, appunto, culturale. Ancora più bella, quest’opera, perché proviene dai ragazzi dei licei, e ancora più bella perché è il segno evidente che i ragazzi sono i primi a reagire di fronte a questa subcultura mafiosa, questa subcultura di prepotenza».
«Ricordare per reagire - ha concluso il parroco - non un mero ricordo per fare un po’ di scena, ma per reagire. Sant’Agostino ci ha insegnato che la speranza è figlia dell’indignazione e del coraggio, l’indignazione è tutto ciò che, appunto, ci fa indignare per le cose che non vanno, e il coraggio è la forza che offre a tutti la possibilità di cambiare le cose. Per cui, tante volte si sente parlare di speranza, ma spesso la speranza non sappiamo dove appoggiarla: sulla indignazione, lo voglio ripetere, e sul coraggio. Di tutti noi».
L’appuntamento, organizzato dall’associazione antiracket “Mani Libere”, ha visto partecipi la Vittoria Ciaramella e Giuseppe Cannizzaro, prefetto e questore di Cosenza, il comandante provinciale dell’Arma dei carabinieri Agatino Saverio Spoto, accompagnato dal capitano Marco Pedullà della compagnia di Paola, il comandante provinciale della Guardia di finanza Giuseppe Dell’Anna, il sindaco di Acquappesa Francesco Tripicchio, e altre autorità civili e religiose, che insieme a una delegazione delle quinte classi dell’Istituto Pizzini-Pisani della città del Santo, hanno reso omaggio al ricordo di un uomo, onesto lavoratore, marito e padre di famiglia.
Il figlio di Lucio Ferrami, Pierluigi, oggi alla guida dell’associazione e dell’azienda sorte nel nome del padre, sulla 42esima ricorrenza dell’omicidio, è stato netto: «queste commemorazioni sono importanti. Non nascondo che all’inizio portavano molta rabbia, perché essere ricordato solo dopo tanti anni è brutto, soprattutto per noi familiari. Però oggi sono importanti perché ci inorgogliscono, perché mio padre è stato vittima di un periodo e di una società che allora era inerme, era succube di questa mafia, dove la corruzione entrava dappertutto. Anche nello Stato, purtroppo».
Inizialmente istruito a Cosenza, e poi proseguito a Bari per ragioni di ordine pubblico, il processo in Corte d’Assise decretò l’ergastolo per Franco Muto e suo figlio Luigi, reggenti dell’omonimo clan cetrarese cui appartenevano anche altri quattro elementi del gruppo di fuoco, destinatari della stessa condanna. Tale verdetto fu però ribaltato in secondo grado, con una sentenza di assoluzione, a formula dubitativa, per tutti gli imputati. Un’occorrenza che nel 1988 portò gli avvocati di parte civile, e soprattutto la moglie di Ferrami, Maria Avolio (sopravvissuta all’agguato benché fosse insieme al marito, che le fece da scudo umano quando le scariche dei killer crivellarono la loro automobile), a chiedere la riapertura del caso, denunciando la Procura della Repubblica di Paola, nel suo complesso, per omissione di atti d’ufficio, avendo i magistrati trascurato denunce della polizia che, già prima del delitto dell’imprenditore, segnalavano l'escalation mafiosa nel comprensorio della costa tirrenica cosentina.
Cronologicamente anteriore di dieci anni rispetto alla vicenda di Libero Grassi, ucciso nel 1991 per le stesse ragioni e divenuto rapidamente simbolo della lotta al racket, per l’affissione di una lapide sul luogo dell’omicidio di Lucio Ferrami, è stato necessario attendere il 2015. Un monito scolpito nel marmo, cui adesso è stato affiancato un mosaico. Punto ulteriore, segnato nella «sfida culturale» che l’intero territorio è chiamato a vincere contro il malaffare.