La solidarietà può essere declinata in molti modi, ma truccarsi da clown e andare negli ospedali non è da tutti. Serve una grande dose di empatia e la capacità di contrastare con il proprio ottimismo l’atmosfera di un luogo deputato ad accogliere la sofferenza.
«Perché lo faccio? Perché è giusto dare, è giusto non girarsi dall’altra parte. Il mondo è pieno di persone buone, ma se non le trovi comincia ad esserlo tu».

Lucia Pizzonia, 36 anni, di Pizzo, è di quelle persone per le quali il bicchiere è costantemente mezzo pieno, sempre pronte a fare il primo passo senza aspettare che siano gli altri a mettersi in cammino. Laureata in Scienze della formazione primaria, con tre master alle spalle, è un’insegnante di sostegno spesso alle prese con i casi più difficili, quelli che altri docenti cercano di evitare come la peste. Non è raro che qualcuno le consigli di lasciar perdere gli alunni più problematici. “Fattene affidare un altro”, le dicono.

E invece no. Lucia non molla. Anzi, aggiunge un ulteriore carico al suo impegno, e questa volta neppure pagato. Mette un camice bianco, si trucca la faccia con un po’ di cerone bianco, si pianta tra gli occhi un naso di plastica rossa e insieme ad altri volontari quasi ogni domenica va all’ospedale Ciaccio di Catanzaro per trascorrere la giornata con i malati, nel tentativo non sempre facile di far dimenticare loro per un po’ il motivo che li costringe in un letto reclinabile.

U' gabbateju dal naso rosso

«Come nome d’arte - spiega - ho scelto “Gabbateju”, che in calabrese significa tutto e niente, qualcosa che nella realtà non esiste, un modo scherzoso per eludere le richieste insistenti dei bambini promettendo loro qualcosa di indefinito, “u’ gabbateju chi pedi russi”, appunto. Mi piaceva l’idea di dare a questo termine concretezza, come dire che anche le cose impossibili possono accadere se ci credi davvero».

Lucia “Gabatteju” Pizzonia da due anni fa parte dell’associazione Vip Italia Onlus, acronimo di “Viviamo in positivo” che la dice lunga sull’approccio di queste persone alla vita. L’organizzazione per ora conta tre sedi in Calabria: a Crotone, Cosenza e Catanzaro. Di quest’ultima fanno parte circa 100 volontari, persone di ogni estrazione e professione, compresi medici, avvocati, insegnanti, dipendenti pubblici.

L'attività negli ospedali

«Ci incontriamo periodicamente per affinare le tecniche di intrattenimento - continua la docente - ma soprattutto per istaurare tra noi un solido rapporto di collaborazione, puntando molto sulla condivisione, sui sentimenti». In altre parole una sorta di allenamento ad essere quanto più “umani” possibile, perché è questo il segreto per entrare in sintonia con persone bloccate in un letto d’ospedale, molte delle quali non hanno nessuna voglia di ridere o parlare con sconosciuti vestiti da pagliacci. 

«Andiamo principalmente nei reparti di pediatria e geriatria, d’accordo con la direzione ospedaliera - continua -. Qui cerchiamo prima di rompere il ghiaccio, senza essere invadenti e rispettando la privacy di chi non vuole interagire con noi. Ma anche i più diffidenti alla fine partecipano, anzi sono proprio quelli più riluttanti che poi chiedono di noi e aspettano con maggiore attesa la nostra prossima visita».

Bolle di sapone, piccoli giochi di magia, numeri da giocolieri, qualche gag comica. Insomma, il solito armamentario da clown. Ma un ospedale non è un circo e i volontari di Vip lo sanno. Tra le corsie di un nosocomio o nelle stanze di una casa di cura, la medicina delle medicine è un prezioso distillato di parole. Ascoltate e dette. Sopra ogni cosa, è questo che fanno Lucia e i suoi colleghi: parlare con i pazienti.

 

Le persone

«Quando ci si riferisce alla clown terapia si pensa sempre ai bambini - afferma la volontaria -, ma spesso le esperienze più intense da un punto di vista emotivo sono quelle con gli anziani ricoverati. Persone che a volte si sentono estremamente sole e sono impaurite dalla propria condizione. La vera sfida, però è con gli adolescenti, quasi sempre inizialmente infastiditi e imbarazzati dalla nostra presenza. Infine, quando andiamo nei reparti dove ci sono i più piccoli, riscontriamo che l’aiuto maggiore con la nostra presenza lo diamo ai genitori, spesso fortemente provati dell’esperienza del ricovero dei propri figli. Vederci interagire con i loro bambini, aiutarli sorridere, li rinfranca e li solleva forse più di quanto non avvenga per i bimbi stessi».

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Tornare a casa e riprendere la vita di sempre dopo una giornata passata a fare il volontario in un ospedale non è facile. Il sorriso svanisce e il carico di emozioni fa sentire il suo peso.

«Ci mettiamo un po’ a riprenderci, soprattutto quando abbiamo dovuto affrontare situazioni particolarmente drammatiche - conclude -, ma la settimana successiva siamo di nuovo lì. Perché lo facciamo? Semplicemente perché è giusto farlo».