Il capoluogo calabrese fu teatro di importanti capitoli giudiziari su uno degli avvenimenti più sconvolgenti del Novecento italiano. Un contributo di Bruno Gemelli a cinquant'anni dai fatti che segnarono l’Italia
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di Bruno Gemelli
«La nascita della Corte d’Appello di Catanzaro - scrive il sito ufficiale della medesima Corte - si deve far risalire all’epoca napoleonica. Già dal 1606 esisteva a Catanzaro una “Regia Udienza”. Il Consiglio Collaterale ne aveva stabilito definitivamente la sede con sentenza del 6 aprile 1606, nella quale si proclamava che “la Regia Udienza non dovevasi più muovere da Cathanzario e che in perpetuum vi rimanesse”».
Sino agli anni ’90 la Corte d’Appello di Catanzaro rimase l’unica sede in Calabria. E nel tempo, negli uffici giudiziari del Capoluogo, si sono svolti innumerevoli processi importanti. Tra cui, nel 1967, il primo grande processo alla mafia siciliana, e successivamente il processo di Piazza Fontana di cui oggi ricorre il 50° anniversario. Per l’occasione il Corriere della sera, il giorno di Sant’Ambrogio, ha pubblicato un libro, “La strage di piazza Fontana”, in vendita nelle edicole. Gli atti dei vari processi tenutisi nei vari gradi, dal 1973 al 1989, si trovano nell’Archivio di Stato di Catanzaro.
Per ospitare il primo processo fu allestita l’aula bunker di via Paglia, all’interno del complesso giudiziario dei Minori. Il quartier generale della stampa si collocò all’interno del Jolly Hotel, con la presenza dei maggiori cronisti giudiziari, a partire da Roberto Martinelli del Corriere della sera. E lo stesso discorso vale per i vari collegi di avvocati, a partire da Guido Calvi, Bianca Guidetti Serra, Carlo Smuraglia.
Il primo processo per la strage si aprì a Roma il 23 febbraio 1972, con imputati Valpreda e Merlino. Alcuni giorni dopo il processo venne trasferito prima a Milano (incompetenza territoriale) e poi il 13 ottobre dello stesso anno a Catanzaro (motivi di ordine pubblico). La Corte di Cassazione, applicando la disciplina allora vigente sulla rimessione dei processi in altra sede per motivi di ordine pubblico, assegnò la competenza sul processo appunto a Catanzaro. I presidenti di Corte di Assise, nella prima fase furono due: Celestino Zeuli, per poco, e Pietro Scuteri. Quest’ultimo ebbe come giudice a latere Vittorio Antonini e come PM Mariano Lombardi.
Il 18 marzo 1974 riprese il processo, ma venne nuovamente interrotto dopo un mese a causa della comparsa di due nuovi imputati: Freda e Ventura. Il 18 gennaio 1977 si riaprì il (quarto) processo con nuovi imputati (anche membri del Sid).
Il Presidente del consiglio Giulio Andreotti, chiamato a testimoniare sulle circostanze in cui tre anni prima era stato opposto il segreto politico-militare ai magistrati che indagavano su Giannettini, pronunciò trentatré volte le parole «non ricordo» durante un interrogatorio sotto giuramento dinanzi alla Corte. Il 16 gennaio 1979 Giovanni Ventura, sempre a Catanzaro, eluse la sorveglianza della polizia fuggendo all'estero.
Il 23 febbraio 1979 si concluse il processo a Catanzaro: Freda, Ventura e Giannettini vennero condannati all’ergastolo come organizzatori della strage, vennero condannati a 4 anni e 6 mesi Valpreda e Merlino per associazione a delinquere (assolti per insufficienza di prove dall’accusa di strage); a 4 anni il generale Gianadelio Maletti e a 2 anni di reclusione il capitano Antonio Labruna del Sid per favoreggiamento; a 1 anno il maresciallo Gaetano Tanzilli (ex Sid) per falsa testimonianza. I condannati verranno poi assolti in appello, ma la Cassazione annullerà la sentenza e ordinerà l’apertura di un nuovo processo.
Il 22 maggio 1980 cominciò a Catanzaro il processo d’Appello. Il 12 dicembre 1980 l’accusa chiese la condanna all’ergastolo per Freda, Ventura, Giannettini, Valpreda e Merlino. Il 20 marzo 1981 si concluse il processo d'Appello: tutti gli imputati furono assolti dall’accusa di strage per insufficienza di prove. Freda e Ventura furono condannati a 15 anni per le bombe del 1969 a Padova (13 aprile) e Milano (25 aprile) e per le bombe sui treni (8 e 9 agosto), a Valpreda e Merlino confermarono le condanne per associazione a delinquere; vennero ridotte le condanne al generale Maletti (2 anni) e al capitano Labruna (1 anno e 2 mesi), e venne assolto il maresciallo Tanzilli; venne altresì dichiarata inammissibile l’accusa di associazione sovversiva per Massimiliano Fachini.
Il 14 ottobre 1981 la Procura generale di Catanzaro decise di riaprire l’inchiesta sulla strage ed emise due comunicazioni giudiziarie nei confronti dell’ex capo di Avanguardia Nazionale Stefano Delle Chiaie per reato di strage e contro Mario Merlino per associazione sovversiva.
Il 10 giugno 1982 la Corte di Cassazione annullò la sentenza d’Appello di Catanzaro e rinviò il processo a Bari, confermando solo la parte di sentenza che prevedeva l’assoluzione di Guido Giannettini. Il 23 dicembre 1982 il giudice istruttore di Catanzaro, Emilio Ledonne, titolare di nuova indagine sui fatti emise mandato di cattura contro Stefano Delle Chiaie.
Il 26 ottobre 1987 si svolse il sesto processo, sempre a Catanzaro: imputati furono i neofascisti Massimiliano Fachini e Stefano Delle Chiaie.
Il 5 febbraio 1989 il PM di Catanzaro chiese l’ergastolo per Stefano Delle Chiaie e l’assoluzione per insufficienza di prove per Massimiliano Fachini. Il 5 luglio 1991 la Corte d’Assise d’Appello di Catanzaro confermò la sentenza del 20 febbraio 1989 e assolse Stefano Delle Chiaie: l’accusa aveva chiesto l’assoluzione per ‘accusa di strage e una condanna a 12 anni per associazione sovversiva.
Il 1° luglio 1997 venne ascoltato dalla commissione stragi il senatore democristiano Paolo Emilio Taviani, più volte ministro dell’Interno e al tempo della strage ministro per la Cassa per il Mezzogiorno. Taviani nell’audizione affermò di ritenere corretto l’esito della sentenza di colpevolezza emessa nel 1979 dalla Corte d’Assise di Catanzaro, che venne poi ribaltata nel 1985 dalla Corte d’Assise d’Appello di Bari. Taviani affermò nell’audizione che alcuni giorni dopo i fatti, il 21 dicembre 1969, ebbe un incontro con il capo della polizia, Angelo Vicari, con cui aveva instaurato un buon rapporto risalente al suo incarico come ministro dell’Interno, e che questi gli riferì che dalle prime indagini la pista legata ai gruppi anarchici o di sinistra sembrava la più probabile, pur non avendo ancora certezze. Secondo quanto riferito in commissione, quando Taviani nel 1973 tornerà al ministero Vicari era da poco andato in pensione e a questo era succeduto Efisio Zanda Loy; l’allora ministro discusse nuovamente la questione con il questore Emilio Santillo (già questore di Reggio Calabria ai tempi della Rivolta), collaboratore di Loy, il quale avrebbe affermato di ritenere che la bomba sarebbe stata piazzata da «un gruppo di estrema destra, emarginato dal Movimento sociale e proveniente dal Veneto» e che tale «gruppo sarebbe stato protetto da uomini del Sid».
Il presidente Pietro Scuteri aveva visto giusto.