È stata la volta dell’esame del collaboratore di giustizia Francesco Costantino, 54 anni, di Maierato, trapiantato in Piemonte, nel maxiprocesso Rinascita-Scott. Rispondendo alle domande del pm della Dda di Catanzaro, Antonio De Bernardo, il collaboratore ha spiegato al Tribunale collegiale di Vibo Valentia il suo percorso criminale accanto al clan Cracolici di Maierato. Arrestato per traffico di droga e armi già nel 1993 ha deciso di collaborare con la giustizia nel 2008, dopo l’ultimo arresto spiegando alla Dda di Torino gli incontri-scontri in Piemonte fra gli esponenti della famiglia degli Ursino, originaria di Gioiosa Ionica, e quella dei Cataldo di Locri per gli interessi legati al mondo del calcio ed alla vendita dei biglietti per l’ingresso allo stadio in occasione delle partite della Juventus. 

«Sono originario di Maierato e sono da sempre cresciuto nella famiglia di Cracolici Raffaele detto “Lele Palermo”. Il mio inserimento in circuiti criminali, tuttavia, ha inizio – spiega Francesco Costantino – nel carcere di Torino nel 1986 per il tramite di Giuseppe Campisi, sposato con una Buccafusca, personaggio di elevato spessore criminale operante nel Nord Italia per conto della famiglia Mancuso di Limbadi e nello specifico di Mancuso Giuseppe, detto ‘Mbroghija, che ho pure personalmente conosciuto. Ho mantenuto da sempre rapporti criminali con Giuseppe Campisi, peraltro legato nel Torinese anche a soggetti come Belfiore ed Ursini», ovvero i boss delle famiglie di Gioiosa Ionica trapiantante a Torino. Per conto di Giuseppe Campisi di Nicotera, Francesco Costantino avrebbe quindi «curato lo spaccio di sostanze stupefacenti, fra eroina e cocaina, tra la fine degli anni ’80 e gli inizi degli anni ’90”. Francesco Costantino avrebbe spacciato “la droga fornita da Giuseppe Campisi nelle zone indicatemi dallo stesso Campisi». 

Il racconto di Francesco Costantino si è poi addentrato a meglio delineare i rapporti di forza fra i clan Mancuso di Limbadi e Nicotera e i Fiarè di San Gregorio d’Ippona. “In questo periodo ho conosciuto Giuseppe Mancuso per un problema che Campisi ha avuto per il mancato pagamento di una partita di sostanze stupefacenti con un tale a nome Lorenzo Fiarè, parente dei Fiarè di San Gregorio d’Ippona. L’incontro avvenne a Milano – continua il collaboratore di giustizia – e venne organizzato da Pino Campisi. In buona sostanza Campisi lamentava la mancata consegna da parte di Fiarè di qualche centinaio di milioni di lire che erano stati raccolti per l’acquisto di sostanza stupefacente e mai consegnati. Campisi voleva sapere se poteva intraprendere azioni ritorsive nei confronti di Fiarè. Premetto – spiega Costantino – che Campisi aveva ampio mandato a commettere delitti nel Nord Italia per conto di Mancuso ed in un caso analogo ben avrebbe potuto agire senza il preventivo assenso di Mancuso. Trattandosi però di un Fiarè, la questione poteva avere delle implicazioni ulteriori che superavano le competenze del Campisi stesso”. L’intervento del boss Giuseppe Mancuso (cl. ’49), alias ‘Mbroghija”, si era quindi reso necessario poiché “Lorenzo Fiarè era un rappresentante della cosca Fiarè”. Sarebbe stato quindi lo stesso Francesco Costantino ad incontrare Giuseppe Mancuso a Milano per riferirgli la problematica per conto di Giuseppe Campisi. “Io ero stato collocato da Campisi – ricorda il collaboratore – accanto al Fiarè per controllarlo, cercando in qualche modo di mediare tra le esigenze dei due per evitare contrasti, giungendo persino a prestare somme a Fiarè fino ad ottanta milioni di lire affinchè le consegnasse a Campisi”. 

L’incontro con Luigi Mancuso

Non solo incontri con Giuseppe Mancuso (in carcere dal 1997 per scontare l’ergastolo poi convertito in 30 anni di reclusione), ma nel racconto e nei ricordi di Francesco Costantino, anche un incontro avuto con il boss Luigi Mancuso, zio di Giuseppe. “Ricordo di aver incontrato anche Luigi Mancuso a Nicotera in una circostanza in cui mi sono recato per acquistare due chili di cocaina da Mimmo Campisi, fratello di Pino e su indicazione di questi che aveva un rapporto di subordinazione nei confronti di Mancuso. Ricordo che, data la presenza di altri personaggi criminali in zona, forse per un summit, ci fu detto di stare nascosti per cui venni proprio ospitato da Luigi Mancuso”. Il collaboratore di giustizia specifica inoltre che i “fratelli Pino e Mimmo Campisi erano organici alla cosca dei Mancuso con ruoli di primo piano, occupandosi a grandi livelli di narcotraffico con rapporti con i colombiani. Con loro ho avuto rapporti criminali fino all’anno 1992, periodo in cui venivo tratto in arresto per reati in materia di stupefacenti e traffico di armi”. Domenico Campisi, broker internazionale della cocaina, è stato poi ucciso il 17 giugno 2011 in un agguato sulla strada provinciale per Nicotera. 

Francesco Costantino ha spiegato poi di non essere mai stato oggetto “di un rito di affiliazione formale alla ‘ndrangheta”. Per quanto riguarda il rapporto con i Cracolici di Maierato, ciò non si sarebbe reso necessario poiché ritenuto “intraneo alla famiglia per il sol fatto di essere cresciuto con loro”, mentre per quanto riguarda il rapporto con Pino Campisi ciò era stato “appositamente evitato perché gli altri soggetti della famiglia – spiega il pentito – non dovevano essere al corrente del ruolo da me occupato nella ‘ndrangheta. Ero quindi un “riservato” della ‘ndrangheta e ciò rappresentava una sorta di autodifesa, di tutela adottata da Campisi nel caso lui avesse avuto dei problemi con la cosca madre dei Mancuso a cui apparteneva, oltre a consentirmi di agire in maniera più discreta, eventualmente anche da imprenditore “pulito” nel caso in cui venivano acquisite delle società o fatti investimenti”. Nei ricordi di Francesco Costantino, anche un omicidio al Nord. 

La caratura criminale dei Cracolici

Cracolici – ha spiegato il collaboratore – come famiglia mafiosa erano presenti pure in Piemonte. In particolare nella zona di Novara c’era Mario Cracolici, mentre Antonino era presente nella zona di Milano. Varie volte Cracolici Raffaele è venuto al Nord per garantire sulla nostra persona con altri rappresentanti della ‘ndrangheta operanti in Piemonte e Lombardia. Con Cracolici Raffaele ho trattato anche l’acquisto di sostanze stupefacenti. Non ho mai reciso i miei rapporti con i Cracolici”.

Quindi la descrizione della “caratura” criminale dei Cracolici, una “famiglia mafiosa operante prevalentemente a Maierato e territori limitrofi, come Filogaso dove operava Alfredo Cracolici ma anche nell’Angitolano ed a Pizzo ove esercitavano un pressante controllo del territorio. Era un vero e proprio gruppo che inizialmente versava una quota dei proventi ai Mancuso. I Cracolici avevano fatto un’estorsione – ha dichiarato il collaboratore – pure prendendo soldi da una ditta chiamata Sardanelli. So che i Cracolici, in seguito all’omicidio di Alfredo Cracolici nel 2002, non versarono più soldi ai Mancuso. Raffaele Cracolici ci disse che ad uccidere suo fratello Alfredo erano stati i Bonavota di Sant’Onofrio”.

I legami dei Bonavoto in Piemonte

Francesco Costantino ha delineato poi i legami dei Bonavota, “gruppo familiare inserito in contesti criminali e facente parte della ‘ndrangheta di cui all’epoca il reggente e responsabile – ha dichiarato – era Pasquale Bonavota e ne faceva parte anche il fratello, ovvero Domenico, l’altro fratello Nicola e lo zio di questi che veniva chiamato Micu i Mela, oltre ad affiliati come gli Arona, Turi e Franco che stavano a Carmagnola, e Antonino De Fina. Si tratta di un gruppo ‘ndranghetistico strutturato come i Cracolici che esercita la sua influenza a Sant’Onofrio e, dopo la morte dei Cracolici, anche a Maierato e Pizzo, nonché a Moncalieri e Carmagnola in Piemonte”.   

I contrasti tra i Cracolici e i Bonavota         

L’origine dello scontro tra i Cracolici ed i Bonavota era dovuto a contrasti sorti per la gestione degli affari illeciti nell’area industriale di Maierato dove era in previsione l’apertura di varie attività commerciali. In tale periodo ho saputo da Raffaele Cracolici che non veniva sferrato un attacco diretto nei confronti dei Bonavota perché gli stessi si erano alleati con altri gruppi criminali del Vibonese ed in particolare con Andrea Mantella, soggetto che io non conoscevo direttamente, con tale Fruci e con due fratelli di Filadelfia che vendevano la frutta alla Marinella di Pizzo. Anche gli Anello di Filadelfia si erano schierati con i Bonavota. Si trattava di soggetti prima amici dei Cracolici che ora però gli stavano voltando le spalle. Raffaele Cracolici – ricorda ancora il pentito Costantino – mi raccontò anche che si era accorto che Mantella, unitamente ad altre tre persone, lo stava seguendo e lui era riuscito a scappare con abili manovre con la sua autovettura tra le stradine di montagna. Un episodio avvenuto dopo l’omicidio di Alfredo Cracolici ed il tentato omicidio dell’acquaiolo. Anche Andrea Mantella era quindi un possibile obiettivo dei Cracolici”. Alfredo Cracolici è stato ucciso l’8 febbraio del 2002, mentre il fratello Raffaele, detto “Lele Palermo” è stato freddato a Pizzo il 4 maggio del 2004.

L’omicidio di Alfredo Cracolici

Ho appreso della morte di Alfredo Cracolici – ha ricordato il pentito – da Raffaele Cracolici e so che nel corso dell’agguato, altro soggetto venne ucciso mentre Alfredo morì il giorno successivo. Ho saputo da Raffaele Cracolici che erano stati i Bonavota ad uccidere il fratello e tale circostanza Raffaele Cracolici l’aveva appresa da un suo consuocero. Raffaele Cracolici mi disse che i mandanti dell’omicidio del fratello Alfredo erano da identificarsi nei fratelli Bonavota Pasquale, Domenico e Nicola. Altro soggetto che aiutò i Bonavota nella realizzazione dell’agguato era da identificarsi in un soggetto di San Nicola da Crissa che faceva l’acquaiolo, originario del reggino o che comunque veniva chiamato il riggitano. Tale soggetto era colui che aveva dato supporto al gruppo di fuoco che successivamente ha commesso gli omicidi di Alfredo Cracolici e della persona che era con lui”.

Il tentato omicidio dell'acquaiolo

“Allo scopo di vendicare la morte del fratello Alfredo, circa un anno dopo Raffaele Cracolici in una circostanza venne a trovarmi in Piemonte e – ha ricordato Francesco Costantino – mi propose di compiere un agguato nei confronti del soggetto ritenuto responsabile della morte del fratello. Per tale motivo io scesi in Calabria – ha ricordato il collaboratore – ed organizzammo l’agguato nei confronti di tale soggetto, l’acquaiolo di San Nicola da Crissa detto il riggitano. In un primo tempo andai a casa di Raffaele Cracolici dove ci stava anche il figlio Domenico Cracolici, quindi ci siamo trasferiti a Filogaso a casa del defunto Alfredo Cracolici dove c’era il figlio Francesco. A compiere materialmente l’agguato dovevamo essere io e, appunto, il figlio di Alfredo, ovvero Francesco Cracolici.

Nella circostanza mi venne indicato un soggetto con un maglione celeste e sfortuna volle che in quella giornata altro soggetto aveva un maglione dello stesso colore. Percui – ha spiegato ancora Costantino – io puntai l’arma verso questo soggetto ma fui fermato da Francesco Cracolici che mi avvertì tempestivamente che non era quello il nostro bersaglio. Dopo qualche istante, dopo averlo esattamente individuato, sia io che Francesco Cracolici sparammo dei colpi di fucile, ma la vittima designata, che si doveva essere accorta del primo movimento, venne solo ferita e riuscì a scappare”. Il seguito del racconto del collaboratore di giustizia è quanto mai significativo di ciò che sarebbe poi successo qualche tempo dopo. “A causa della mancata uccisione dell’acquaiolo io mi trasferì a Lamezia Terme ospite dei Pagliuso e lì Raffaele Cracolici mi riferì che a breve sarebbe stato ucciso anche lui dai Bonavota poiché non era stato capace di vendicare la morte del fratello”. Cosa che avvenne realmente il 4 maggio del 2004 in località Marinella a Pizzo.

I nuovi assetti nel clan Cracolici

Dopo la morte dei fratelli Alfredo e Raffaele Cracolici, il potere nel clan sarebbe passato a Domenico Cracolici (figlio di Raffaele Cracolici) che voleva colpire i fratelli Bonavota per vendicare il padre e lo zio, “ma successivamente – ha ricordato Costantino – il comando della cosca passò a Francesco Cracolici, figlio di Alfredo, che era più deciso ed azionista del cugino Domenico ed infatti era venuto con me a sparare per vendicare la morte del padre Alfredo”.

Il ruolo di Domenico Di Leo

Francesco Costantino nel suo lungo esame, ha poi parlato del ruolo di Domenico Di Leo, alias “Micu Catalanu”, ucciso a Sant’Onofrio in via Tre Croci il 12 luglio 2014. “L’ho conosciuto quando viveva a Nichelino, in Piemonte, ed era molto amico di mio fratello, oltre che di Nino De Fina. Domenico Di Leo – ha ricordato Costantino - frequentava un bar a Moncalieri di proprietà di tale Serratore, organico alla famiglia dei Bonavota, dove ho avuto modo di conoscere pure Pasquale Bonavota. Con Di Leo ho trattato anche la cessione di sostanze stupefacenti. Dopo la morte nel 2002 di Alfredo Cracolici, ricordo – ha aggiunto il collaboratore – che Di Leo doveva recarsi in Calabria per aprire un’attività commerciale nella costruenda area industriale di Maierato. So che per questo motivo Di Leo doveva scendere a parlare con i Bonavota in Calabria perché erano sorti dei dissapori con Pasquale Bonavota. So che i Bonavota temevano particolarmente Di Leo quale soggetto che, se necessario, poteva anche arrivare a sparargli. Ho saputo della morte di Di Leo nell’anno 2004 da mio fratello che mi riferì che Domenico Di Leo era stato ucciso mentre si trovava giù in Calabria, precisando che forse non era stato capace di risolvere i problemi che aveva avuto con i Bonavota. Anche De Fina – ha continuato Costantino – mi disse che la morte di Di Leo era dovuta ai Bonavota e nello specifico che i mandanti erano da identificarsi in Mimmo e Pasquale Bonavota che temevano una reazione di Di Leo. De Fina mi disse che la notizia della riconducibilità della morte di Di Leo ai Bonavota l’aveva appresa direttamente a Sant’Onofrio dove partecipò ai funerali di Di Leo, ed anche da parte di tale Pizzonia. Successivamente ho saputo che De Fina ha avuto nella sua disponibilità delle carte processuali dove si parlava dell’agguato ai danni di Di Leo ed aveva timore che anche lui venisse coinvolto nella vicenda unitamente a Pizzonia. L’aspetto scatenante che aveva determinato l’omicidio Di Leo era la paura che Pasquale Bonavota nutriva nei confronti di Di Leo, soggetto che il Bonavota conosceva bene e che sapeva capace di qualunque azione, senza timori nei loro confronti”.