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Dai 160.000 ai 250.000 euro. Tanto può valere un rene sul mercato illegale degli organi. Basta solo l’idea che una tale opzione rappresenti una possibilità concreta per qualcuno a far accapponare la pelle. Pensiamo ai nostri figli, ai nostri nipoti. Cosa accadrebbe se uno di loro, navigando nella giungla di pixel della rete, venisse a conoscenza di questa tremenda opzione, e pensasse perfino di metterla in pratica.
Non riesce a trattenere l’emozione Don Giuseppe Fiorillo, mentre racconta di una madre giunta a chiedergli aiuto in lacrime. Spiazzata e lacerata dalla proposta della figlia appena quattordicenne. Lei, senza neanche i soldi per mettere insieme pranzo e cena, con un marito ammalato, messa dalla figlia di fronte a un’opportunità inaccettabile. Navigando su internet scopre che si possono guadagnare soldi vendendo pezzi del proprio corpo.
160.000 euro per un rene. Una cifra in grado di cambiare il corso di una vita. Lo propone alla madre. Se può servire per uscire dall’abisso della povertà, perché non farlo? E a contare non è la risposta - ovviamente negativa – della madre, ma l’origine stessa della domanda. Il substrato di degrado e abbandono che spinge un’adolescente a prendere in considerazione l’idea di privarsi di un organo del proprio corpo, di sottoporsi a un intervento chirurgico, di mettere a repentaglio la propria vita, pur di consentire al padre di curarsi. Pur di permettere alla madre di fare la spesa e a se stessa di sopravvivere.
Non è un contesto sano quello che permette a un’aberrazione simile di trovare terreno fertile nella mente di una ragazzina che dovrebbe pensare solo ad essere – appunto- una ragazzina. Questa è una delle centinaia di storie di ordinaria povertà che quotidianamente si snodano appena sotto la superficie ovattata della nostra quotidiana indifferenza. Famiglie monoreddito che non ce la fanno ad arrivare neanche alla prima metà del mese. Interi nuclei familiari gettati nell’indigenza dalla perdita del lavoro. Situazioni di disagio che si ripercuotono sui più fragili.
Sui bambini, bisognosi di tutele, di assistenza, di un welfare che provveda a garantirne non solo l’istruzione, ma anche il benessere, le cure mediche, il sostegno psicologico. Perché la storia raccontata da Monsignor Peppino Fiorillo, che da decenni cammina accanto ai poveri in una delle zone più economicamente depresse e degradate della regione, è la punta di un iceberg. Il Vibonese sprofonda lentamente nella povertà. Il gap sociale diventa sempre più difficile da colmare. Ma continua ad essere una povertà discreta, che non invade le strade. Si digiuna, ci si priva di tutto, si piange, ci si vergogna al sicuro delle mura domestiche. I poveri vengono nascosti come parenti scomodi. Ignorati, esclusi. Fino al pianto disperato della prossima madre, fino alla prossima ragazzina disposta a vendersi per soldi, nessuno saprà che a Vibo esiste la povertà.
Loredana Colloca