Il giovane spirò nel 2018 a causa di un’infezione non curata in tempo. La perizia della Procura in contrasto con quella privata e con le testimonianze dei compagni di cella. Il giudice chiede nuove indagini
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Serviranno altre indagini. Troppi i punti rimasti in ombra rispetto alla morte di Antonino Saladino, il ventinovenne detenuto nel carcere di Arghillà a Reggio Calabria, e deceduto nel marzo del 2018 in seguito ad un’infezione interna che nessuno era riuscito a diagnosticare in tempo. Il giudice per le indagini preliminari di Reggio Foti ha infatti rigettato, per la seconda volta, la richiesta di archiviazione avanzata dalla procura dello Stretto.
Qualcosa, nel circuito sanitario del maxi carcere alla periferia della città, non avrebbe funzionato finendo col costare la vita ad un giovane che in carcere ci era finito, in attesa di giudizio, da incensurato con l’accusa di essere parte di un giro di spaccio nel quadrante nord di Reggio.
Su è giù dall’infermeria
Antonino Saladino è un ragazzone in salute di nemmeno trent’anni quando varca l’ingresso di Arghillà nel 2017. Agli inizi di marzo del 2018 però comincia ad accusare i primi sintomi di un malessere che – sostiene la perizia disposta dall’avvocato della famiglia della vittima Pierpaolo Albanese – nei giorni successivi sarebbe peggiorato per un paio di settimane fino a provocare la morte del detenuto, certificata dai medici del 118 arrivati quando ormai non c’era più niente da fare.
In mezzo a queste due date (il 5 marzo, giorno della prima visita in infermeria e il 18, giorno in cui Saladino viene dichiarato morto) ci sono però numeri, quelli relativi agli accessi in infermeria del detenuto, che non tornerebbero. Dai registri medici risultano infatti ingressi in soli tre giorni: il 5 e il 6 del marzo 2018, quando i sintomi di Saladino vengono trattati come un’influenza. E poi il 18, quando il detenuto fa avanti e indietro dall’infermeria per due volte nell’arco della giornata, prima di tornarci, per un’ultima volta poco dopo la mezzanotte. Incrociando però i dati dei registri infermieristici – quelli cioè dove il medico non interviene direttamente – le interazioni con l’infermeria di Saladino raddoppiano e vengono certificati ingressi anche giorno 11, il 16 per due volte e il 17. In tutte queste occasioni a Saladino, che lamenta gli stessi sintomi già denunciati, vengono prescritte, forse dagli stessi infermieri, terapie a base di Maloox e Acetamol.
Le diverse perizie
L’analisi eseguita dal perito nominato dalla procura aveva stabilito che il decorso della malattia fosse stato accelerato e quasi asintomatico, impedendo di fatto ai medici la possibilità di intervenire in tempo. Di segno opposto invece la perizia di parte disposta su impulso della famiglia della vittima che, anche alla luce dei nuovi dati riportati dai registri infermieristici, certificò che l’infezione presentò i primi sintomi agli inizi del mese, trascinandosi con «decorso lento e inesorabile» fino al 18 senza che nessuno ne venisse a capo. Una tesi che si gioverebbe anche delle testimonianze dei compagni di cella di Saladino che, seppure con versioni non sempre coincidenti, raccontarono delle sofferenze del ragazzo per un lungo periodo di tempo.
Le nuove indagini
Con l’ordinanza del Gip che dispone un nuovo supplemento di indagini, una parte di questi punti rimasti ancora oscuri, potrebbero venire alla luce. A iniziare dalle cause della morte di Saladino. Una nuova perizia - a più di quattro anni dai fatti - è infatti stata disposta dal Giudice. Sarà questo nuovo esame, forse, a chiarirne le dinamiche. Le nuove indagini serviranno poi a capire se esistono responsabilità nella catena medica carceraria che non è riuscita a salvare quel giovane imbianchino accusato di spaccio e morto mentre era sotto custodia dello Stato, prima ancora di essere giudicato.