Omicidi impuniti, missioni di morte pianificate all’ombra del controllo del “locale” di ‘ndrangheta di Ariola di Gerocarne, ma anche manoscritti rinvenuti a Vibo capaci di dimostrare, attraverso i rituali di affiliazione, l’unitarietà della criminalità organizzata calabrese. E’ toccato all’ex comandante del Nucleo Investigativo di Vibo Valentia, Valerio Palmieri, delineare lo scenario e le risultanze investigative nel corso del maxiprocesso - nato dalle operazioni Maestrale-Carthago, Olimpo e Imperium – che si sta tenendo dinanzi al Tribunale collegiale. Il teste si è in particolare soffermato su alcune figure di spicco della ‘ndrangheta i cui nominativi facevano parte delle “copiate”, cioè dei nomi usati dagli ‘ndranghetisti all’atto dell’affiliazione e del passaggio al grado mafioso superiore.

Il manoscritto rinvenuto a Vibo

E’ nel corso di una perquisizione domiciliare a casa di Giuseppe Camillò di Vibo Valentia che i carabinieri ritrovano nel cassetto di un comodino della camera da letto un appunto manoscritto con su scritto: “Vangelo, copiata, 8 aprile 2017”.

Si tratta del grado di ‘ndrangheta del Vangelo – ha spiegato il colonnello Palmieri –, proprio della società maggiore e i tre nomi della copiata di tale dote di ‘ndrangheta venivano indicati nei nominativi di Luca Surace di Anoia, responsabile della Piana di Gioia Tauro, Settimo Paviglianiti di San Lorenzo, responsabile della parte tirrenica, e Domenico Barbaro di Platì, responsabile della zona ionica. Sotto tali nomi erano indicati i personaggi mitologici della formula del rituale che vengono abbinati ai nominativi, e quindi abbiamo trovato Peppe Bono, Peppe Giusto e Peppe Ignazio, che sono i tre nomi della formula del dote del vangelo nella ‘ndrangheta. Poi c’era l’indicazione di nostro signore Gesù Cristo, perché la formula del rituale del vangelo si conclude così”.

Giuseppe Camillò nel maxiprocesso Rinascita Scott è stato condannato a 23 anni di reclusione (a febbraio si aprirà il processo d’appello), mentre il padre Domenico Camillò (cl ’41) ha rimediato in appello, con il rito abbreviato, la condanna a 14 anni e 4 mesi. Si tratta dello stesso Domenico Camillò, al vertice della ‘ndrina dei Pardea, che è stato filmato dagli investigatori mentre insieme a Bartolomeo Arena (dall’ottobre 2019 collaboratore di giustizia) si recava a Rosarno da Domenico Oppedisano (nominato nel 2009 “capo crimine” dell’intera ‘ndrangheta calabrese) per avere il sostegno per l’apertura di un nuovo “locale” di ‘ndrangheta nella città di Vibo Valentia. “Negli appunti manoscritti trovati a casa di Giuseppe Camillò – ha spiegato ancora il teste Palmieri – c’era poi l’indicazione della copiata per il grado mafioso del trequartino che è superiore al vangelo. Per tale dote di ‘ndrangheta venivano indicati i nominativi di Giuseppe Bellocco di Rosarno, che era stato arrestato da latitante nel 2007 nelle campagne di Comparni di Mileto, Rocco Aquino di Gioiosa Ionica e Antonio Altamura di Ariola di Gerocarne, nel Vibonese”. I nomi mitologici abbinati ai tre ‘ndranghetisti presenti nella copiata del trequartino erano quelli di Gaspare per Antonio Altamura, Melchiorre per Giuseppe Bellocco e Baldassarre per Rocco Aquino”.

Lo scontro tra Soriano, Gerocarne e Sorianello

Antonio Altamura, 79 anni, è stato condannato nel 2018 in via definitiva a 16 anni di reclusione nel processo nato dall’operazione “Luce nei boschi” in quanto riconosciuto quale capo storico del “locale” di ‘ndrangheta di Ariola di Gerocarne, in grado di dialogare sia con i più blasonati boss di Rosarno (Domenico Oppedisano su tutti), sia con quelli di San Luca. Al suo fianco, senza mai metterne in discussione il ruolo, avrebbero alternativamente operato – quale braccio-armato – prima il clan dei Loielo e poi quello degli Emanuele. E’ a questo punto della deposizione che il colonnello, Valerio Palmieri, ha ricordato al Tribunale collegiale di Vibo Valentia il lungo elenco di omicidi avvenuti nelle Preserre vibonesi e precisamente tra Gerocarne, Sorianello e Soriano Calabro. Per l’eliminazione dei fratelli Giuseppe e Vincenzo Loielo – avvenuta nel 2002 nei pressi dell’acquedotto di Gerocarne – stanno scontando l’ergastolo il boss Bruno Emanuele e il suo braccio-destro Vincenzo Bartone. “L’operazione Luce nei boschi è del gennaio 2012 e già ad aprile dello stesso anno assistiamo al tentato omicidio di Giovanni Emmanuele, con due m, soggetto vicino al gruppo degli Emanuele. Poi c’è un botta e risposta tra i Loielo e gli Emanuele, con l’omicidio di Nicola Rimedio, imparentato con i Loielo, ucciso il 2 giugno del 2012, quindi l’omicidio di Antonino Zupo il 22 settembre 2012 a Gerocarne. Zupo era ritenuto vicino agli Emanuele”.

L’elenco dei morti ammazzati – ricordati in aula dal teste – continua con l’omicidio di Domenico Ciconte di Sorianello, ucciso il 25 settembre del 2012 e ritenuto vicino ai Loielo, quindi con l’omicidio di Filippo Ceravolo il 25 ottobre 2012 “che non è collegato alla faida – ha precisato il teste – ma con lui si trovava Domenico Tassone, ritenuto vicino al gruppo degli Emanuele e reale bersaglio dell’agguato”.

La scia di sangue prosegue con: l’eliminazione del 23enne Salvatore Lazzaro (vicino ai Loielo e cugino di Nicola Rimedio), ucciso a fucilate il 12 aprile 2013 mentre si trovava agli arresti domiciliari; il tentato omicidio di Valerio Loielo nel luglio 2014 mentre si trovava in auto insieme alla madre (moglie del boss Giuseppe Loielo ucciso nel 2002); il tentato omicidio il 22 ottobre 2015 ad Ariola di Antonino Loielo (poi ucciso dal figlio Walter, attuale collaboratore di giustizia, nel 2017), della compagna Sofia Alessandria, di Alex Loielo (figlio di Antonino) e di due bambine, Chiara e Rita Loielo (tutte in auto con Antonino Loielo); il triplice tentato omicidio dei fratelli Rinaldo e Valerio Loielo e del loro cugino Walter Loielo (attuale collaboratore di giustizia).

“A livello logistico – ha ricordato il colonnello Palmieri – i Loielo erano sostenuti dal boss Pantaleone Mancuso, detto Scarpuni, venendosi così a creare un vero e proprio fronte su due livelli, visto che i Loielo erano alleati ai Patania di Stefanaconi all’epoca in guerra contro il clan dei Piscopisani, tanto è vero che Cristian e Alex Loielo sono rimasti implicati nella faida a supporto dei Patania, mentre Rinaldo Loielo è stato trovato con in macchina un ordigno esplosivo che gli era stato fornito proprio da Pantaleone Mancuso. Gli Emanuele facevano invece fronte comune con i Bonavota di Sant’Onofrio e i Piscopisani, tutti interessati all’eliminazione di Pantaleone Mancuso. Delle motivazioni che c’erano dietro tali linee di alleanze – ha concluso il teste – ne hanno parlato diversi collaboratori di giustizia tra cui Mantella Andrea e Moscato Raffaele, soprattutto soffermandosi sul progetto di eliminazione di Pantaleone Mancuso, Scarpuni”.

Moscato, Loielo e i fatti di sangue impuniti

Sin qui il colonnello Valerio Palmieri. Dai verbali di Raffaele Moscato, depositati nelle inchieste “Rimpiazzo” e “Costa Pulita”, è emerso da tempo che il collaboratore ha indicato agli inquirenti gli autori di diversi fatti di sangue rimasti impuniti commessi nelle Preserre. Informazioni preziose per dare un nome ed un volto agli autori degli efferati omicidi (ad oggi impuniti) che hanno insanguinato Gerocarne, Soriano e Sorianello. Omicidi come quello di Nicola Rimedio, ucciso all’età di 26 anni nella serata del 2 giugno del 2012 in un agguato lungo la ex statale che da Savini conduce a Serra San Bruno mentre si trovava a bordo della sua Golf. Su tale fatto di sangue, Raffaele Moscato ha indicato agli inquirenti mandanti ed esecutori materiali, spiegando i motivi posti alla base della sua eliminazione. Particolari ancora coperti da segreto investigativo. Secondo quanto sinora emerso da altre indagini, Nicola Rimedio avrebbe fatto parte del gruppo dei Loielo di Ariola di Gerocarne (guidato dagli omonimi cugini Rinaldo Loielo, figli dei defunti boss Giuseppe e Vincenzo Loielo).

Raffaele Moscato ha poi offerto elementi importanti anche per far luce sull’omicidio di Filippo Ceravolo, il 19enne ucciso per errore la sera del 25 ottobre del 2012 a Soriano Calabro. Un agguato che aveva come bersaglio Domenico Tassone, rimasto solamente ferito nella sparatoria ed a sua volta cugino di Giovanni Emmanuele, anche lui vittima di un tentato omicidio avvenuto l’1 aprile del 2013. “A commettere l’omicidio di Filippo Ceravolo e il tentato omicidio di Tassone, il cui nome di battesimo non conosco – ha fatto mettere a verbale il collaboratore di giustizia –, ma che ho incontrato una volta a Cassano quando preparavamo l’evasione di Bruno Emanuele, sono stati……”. Nulla (o quasi) Raffaele Moscato ha invece dichiarato sull’omicidio di Salvatore Lazzaro, il 23enne ucciso il 12 aprile del 2013 a colpi di fucile mentre si trovava agli arresti domiciliari a Fago Savini di Sorianello. Per gli inquirenti, la vittima avrebbe fatto parte del clan dei Loielo ed in tal senso una conferma arriva pure da Moscato: “Nulla so dire dell’omicidio di Lazzaro Salvatore – ha dichiarato il pentito – perchè all’epoca io ero in galera. Sono però certo – ha aggiunto – del fatto che lo hanno ucciso gli Emanuele”.

Raffaele Moscato, infine, ha fatto un chiaro riferimento pure all’omicidio di Domenico Ciconte, l’imprenditore boschivo 63enne ucciso il 25 settembre 2012. Un omicidio, anche questo, sinora rimasto impunito.“Ciconte è stato ucciso dagli Emanuele perché appoggiava i Loielo, probabilmente – ha dichiarato Moscato – era quello che li finanziava economicamente”. Domenico Ciconte era imparentato con Nicola Rimedio, nonché era anche cugino del padre di Nicola Ciconte, altro giovane rimasto ferito a settembre del 2017 a causa dell’esplosione di una bomba collocata sotto la sua auto.

I verbali del collaboratore di giustizia Walter Loielo – che ha confessato di aver ucciso il padre Antonino occultandone il cadavere ed è stato condannato per questo a 20 anni di carcere – sono invece, allo stato, ancora in gran parte omissati. Centinaia di pagine di verbali depositati, da ultimo, nell’inchiesta Habanero e che potrebbero contenere dichiarazioni dirompenti per assicurare alla giustizia gli autori della “mattanza” delle Preserre rimasta ad oggi impunita.