Processo Breakfast, chiesti quattro anni e sei mesi di reclusione per Claudio Scajola

VIDEO | Nel procedimento all'ex ministro, in corso a Reggio, il procuratore esclude l'aggravante di mafia. Per Chiara Rizzo il pm ha chiesto 11 anni e 6 mesi di reclusione

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di Consolato Minniti
4 novembre 2019
14:42

Quattro anni e sei mesi di reclusione. Questa la richiesta di condanna del procuratore Lombardo per Claudio Scajola. Per Chiara Rizzo il pm ha chiesto 11 anni e 6 mesi di reclusione; per Martino Politi sono stati chiesti 7 anni e 6 mesi di reclusione; per Mariagrazia Fiordelisi, invece, la richiesta è stata di 7 anni e 6 mesi di reclusione.

 


È questa la richiesta del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo nel processo Breakfast che vede alla sbarra diversi soggetti con l’accusa di aver favorito la latitanza di Amedeo Matacena.
Il procuratore non ha contestato nei riguardi di Scajola l’aggravante mafiosa. Mentre essa è stata contestata nei riguardi di Chiara Rizzo, Martino Politi e Mariagrazia Fiordelisi.

Nel corso della requisitoria il pubblico ministero ha letto con attenzione alcuni passaggi della sentenza che riguarda Matacena. Il concetto fondamentale è uno: l’ex parlamentare ha un ruolo paritetico con i soggetti di mafia. Vi è una «serietà e concretezza degli impegni assunti nei confronti delle cosche di Reggio Calabria. Matacena – ha proseguito Lombardo leggendo alcuni passaggi della sentenza – non è vittima dei suoi estortori, ma è titolato a frapporsi in una posizione di non sudditanza. Emerge come Matacena sia stato in grado di paralizzare una richiesta estorsiva da parte di un soggetto importante come Antonio Rosmini». Le parole del pm sono nette: «Io raramente ho letto sentenza che si esprimono con tale chiarezza tra soggetti che dovrebbero porsi in posizioni diverse». 

 

Il pm Lombardo ha quindi analizzato la posizione di Amedeo Matacena. I più grandi appalti degli anni ‘90 sarebbero stati appannaggio di Amedeo Matacena. Dal tapis-roulant al lungomare, passando per il palazzo dello sport, palestre e questura. Tutti firmati da imprese che sono riconducibili in via indiretta ad Amedeo Matacena. È questa la ricostruzione del procuratore Lombardo.

Fiordelisi ha collaborato

Il pubblico ministero si è soffermato dapprima sulla posizione di Mariagrazia Fiordelisi, spiegando come ella sia l’unica alla quale è possibile applicare delle attenuanti, proprio per il suo contributo fornito nel corso dell’inchiesta. «Per essere chiaro, Fiordelisi non dimostra alcuna forma di reticenza nella sua ricostruzione, anche se non riesce, per forza di cose, a fornire la prova della sua estraneità a determinate condotte. Posso dire – spiega Lombardo – che Fiordelisi è l’unico soggetto collaborativo che noi individuiamo nel corso della lunga indagine e del processo che ci occupa. Il suo contributo non è fuorviante e non è una mera difesa, ma un contributo vero nel momento in cui spiega quando arriva a diventare amministratore unico delle società e dice di aver fatto delle cose su indicazione di Matacena e Rizzo».

Le opere pubbliche fatte da Matacena

Lombardo ha continuato il suo intervento citando alcune opere pubbliche che sono state realizzare da Matacena, attraverso una galassia di imprese non direttamente a lui riconducibili, ma, di fatto, da lui controllate. E parte dal tapis-roulant, «vanto dell’amministrazione Scopelliti. Che – è l’inciso del pm – funziona un giorno sì e 30 no, sebbene io non vada molto al centro di Reggio Calabria». Ma poi c’è il palazzo dello sport, piazza Orange, la palestra di Reggio Calabria, la questura reggina, la pista dell’aeroporto, nonché il lungomare. «Questo ci rassegna un dato drammatico e cioè dell’assoluta inutilità delle cosiddette informazioni antimafia e ciò lo si ricava dalla semplice analisi di questo breve elenco che vi ho fatto, nella misura in cui, senza poteri istruttori, la Prefettura di Reggio Calabria non ha potuto comprendere chi si celasse dietro determinati schermi societari. E questo è gravissimo. La ragione? Gli schermi – è l’affondo di Lombardo – che ruotano attorno alle figure di Matacena non hanno consentito di comprendere come lui fosse l’effettivo dominus di soggetti che stipulavano contratti aventi ad oggetto opere pubbliche e gli hanno consentito di eludere gli sbarramenti previsti dalle norme antimafia». Il commento è durissimo: «Tutto questo è ridicolo. Di fronte ad una schermatura fiduciaria tutto si ferma. Per gli organi amministrativi di questo Stato, tutto era a posto. Ci voleva forse il lavoro della Dia di Reggio Calabria?».

Cosa sapeva Chiara Rizzo?

Non usa mezze parole il pm. Secondo lui «Amedeo Matacena è l’unico nella storia giudiziaria reggina e forse anche nazionale a dire ad un Rosmini: “Io non ti pago, perché se continui a insistere quello che sei tu lo faccio diventare un altro». Si domanda il pm: «Chiara Rizzo tutto questo lo sapeva? Può aver proseguito consapevolmente la gestione dei rapporti con la cosca Rosmini per gli appalti della Cogem? Emerge un quadro strutturato di rapporti e relazioni in favore della ‘ndrangheta unitariamente intesta. La continuità operativa di Chiara Rizzo in relazione al ruolo del marito devono essere valutate anche in merito alla piena integrazione del delitto di cui all’articolo 12 quinquies con l’aggravante mafiosa. L’operatività che Matacena continua a mantenere ottenendo la certificazione antimafia si traduce in una operatività a favore della ‘ndrangheta reggina nelle sue articolazioni territoriali». E giù con l’elenco delle società di fornitura in odore di ‘ndrangheta. Tuttavia, «dalle analisi fatte a livello amministrativo, nei confronti di Cogem e soci non sussistevano tentativi di infiltrazione mafiosa».

Giornalista
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