La Suprema Corte ha annullato senza rinvio la prescrizione rimediata in appello dal poliziotto Emanuele Rodonò per il reato di rivelazione di segreto d’ufficio. Era già stato assolto in tutti i gradi di giudizio dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa
Tutti gli articoli di Cronaca
PHOTO
Finisce in una “bolla di sapone” l’intera operazione denominata Purgatorio, scattata nel febbraio 2014 con il coordinamento della Dda di Catanzaro. La Cassazione, accogliendo il ricorso della difesa, ha infatti annullato senza rinvio anche la residua imputazione di rivelazione di segreto d’ufficio per la quale la Corte d’Appello di Catanzaro aveva dichiarato per l’ex vice capo della Squadra Mobile di Vibo Valentia, Emanuele Rodonò, la prescrizione del reato dopo la condanna ad un anno (pena sospesa) in primo grado. La Suprema Corte, accogliendo il ricorso degli avvocati Armando e Clara Veneto, ha cancellato anche la prescrizione decidendo quindi per l’assoluzione con formula piena.
Già in primo e secondo grado, l’ex capo della Squadra Mobile di Vibo Emanuele Rodonò aveva incassato l’assoluzione “perché il fatto non sussiste” dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa (clan Mancuso), unitamente all’ex capo della Squadra Mobile Maurizio Lento. In sede di appello era stato assolto con formula piena (“il fatto non sussiste”) anche l’avvocato del Foro di Vibo Valentia Antonio Galati. La Procura di Catanzaro aveva chiesto in appello 6 anni a testa per Lento e Rodonò e 7 anni e 8 mesi per l’avvocato Galati.
La condanna rimediata in primo grado da Emanuele Rodonò (un anno, con sospensione della pena e non menzione per il reato di rivelazione di segreti d’ufficio) si riferiva alla contestazione di una rivelazione fatta dal poliziotto all’avvocato Galati su alcuni arresti effettuati dai colleghi della Squadra Mobile di Bologna. Ma tale condotta già per i giudici di primo grado non era stata comunque finalizzata in alcun modo a favorire gruppi criminali, meno che mai di stampo mafioso, atteso che il Tribunale di Vibo aveva escluso l’aggravante delle finalità mafiose. La Corte d’Appello in relazione a tale accusa aveva dichiarato il «non doversi procedere per intervenuta prescrizione», ma ora la Cassazione ha annullato senza rinvio: non è stato commesso alcun reato da parte di Emanuele Rodonò.
Non ha retto, dunque, l’intero impianto accusatorio messo in piedi dalla Dda di Catanzaro (all’epoca l’operazione “Purgatorio” era scattata con il coordinamento dell’allora procuratore di Catanzaro Giuseppe Borrelli e del pm Simona Rossi) su indagini condotte sul “campo” dai carabinieri del Ros di Catanzaro guidati all’epoca dal maggiore Giovanni Sozzo.
Alla luce dei verdetti ormai definitivi si può quindi affermare che i due ex dirigenti della Squadra Mobile di Vibo Valentia, Maurizio Lento ed Emanuele Rodonò, non hanno favorito in alcun modo il clan Mancuso nell’espletamento del loro lavoro in Questura. Stessa cosa per l’avvocato Antonio Galati, atteso che i giudici d’appello hanno fatto cadere per lui, «perché il fatto non sussiste», l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa (clan Mancuso).