«So per quale motivo sono stato convocato». Milano, sede della Direzione investigativa antimafia. Il calendario segna la data del 27 novembre 2012 e, davanti all’allora procuratore aggiunto della Direzione nazionale antimafia, Gianfranco Donadio, c’è Giuseppe Calabrò. Condannato in via definitiva per l’omicidio dei carabinieri Fava e Garofalo, sconta oggi la sua pena in un penitenziario milanese. Calabrò sa perfettamente perché sia stato chiamato. Poco tempo prima invia una missiva alla Dna (che non arriverà mai, se non in un secondo momento ed in via indiretta) nella quale parla proprio di quel duplice delitto. Donadio, allora, decide di vederci più chiaro. «Vi sono delle vicende interne alla questione Calabrò – riferisce il pm ai colleghi della Procura di Catanzaro – che ci spiegherà che aveva in qualche modo minacciato queste esternazioni, questa chiarificazione definitiva del background, chiamiamola della strage lenta consumata in quel modo a Reggio Calabria, perché aveva un grande interesse ad essere trasferito e collocato in una condizione carceraria più, a suo avviso, comoda, più preferibile e che una volta ottenuto questo beneficio ritenne di non dar corso alla corrispondenza».

 

«Questa è carne mia». Donadio dà lettura della missiva scritta da Calabrò e questi conferma che è proprio lui ad averla composta. Tutto finito? Neanche a dirlo. Il colloquio investigativo prende una piega inattesa, con particolari ulteriori ed inediti, in quanto spuntano fuori «i cognomi delle persone indicate da Villani come anelli diciamo successivi, potremmo dire precedenti, nella scala di formazione della deliberazione criminale». Insomma, per dirla in breve: Villani fece a Donadio i nomi dei mandanti di quel duplice delitto e Calabrò, che è lì davanti, si trova a dover confermare o meno. È scosso l’ex collaboratore di giustizia. Ha una preoccupazione che Donadio definisce «viva». Il motivo? Eccolo: «Ricordo l’espressione: “Questa è carne mia…”, espressione rivolta a un ruolo attivo che in questa vicenda avrebbero avuto suoi stretti congiunti. E quindi s’individuano altri personaggi che poi sono stati ovviamente generalizzati e indicati nell’atto d’impulso spedito alla Dda di Reggio Calabria». È proprio Giuseppe Calabrò, dunque, ad indicare dei soggetti a Donadio, come confermato dallo stesso pm. Sono i nomi di chi ha deciso che quella strage del 1994 doveva essere compiuta. Sono i nomi di coloro che hanno scelto di mandare sul campo Calabrò e Villani a sparare all’impazzata perché quella doveva essere la prima parte di una strategia più ampia, oggi si pensa di matrice terroristica.

 

Il pentito Lo Giudice costretto a mentire? I sospetti nei verbali del pm

 

«Dottore, non ve ne andate». Un racconto che combacia perfettamente con quello fatto, pochi giorni prima, da Villani allo stesso Donadio. Mentre il pm sta per chiudere il colloquio investigativo con il pentito, questi lo ferma. Sa di aver raccontato solo la verità ufficiale sulla morte di Fava e Garofalo. E riprende: «Non posso rischiare il futuro per la vicenda dei carabinieri, intendo riferirvi esattamente come andarono le cose».

 

Come la Uno Bianca. «Ricordo delle frasi – aggiunge Donadio - diciamo: “Dovevamo fare come quelli della Uno bianca…”, quindi con una sequenza di tipo sostanzialmente terroristico e questo discorso venne poi ulteriormente approfondito in un’altra direzione, negli eventi nei confronti dei carabinieri era stata adoperata sempre la stessa arma. Così come la Uno bianca (…) Villani se ricordo bene parlò anche di una vicenda assolutamente inesplorata nel corso del processo e cioè del fatto che vi fu una rivendicazione di chiara matrice terroristica. L’evento noi lo avevamo apprezzato perché nel corso della ricostruzione di tutti gli atti si era fatto ricorso anche ad una ricostruzione delle fonti esterne ed era stato individuato un articolo pubblicato dal giornale Il Corriere della Sera, dove si parlava di questa rivendicazione». Donadio ricorda anche un altro particolare che riguarda un aspetto terroristico di quell’azione criminale: «In occasione del duplice omicidio, il capo della polizia di recò a Reggio Calabria, venne intervistato ed esternò una serie di considerazioni: “Lo Stato non arretrerà di fronte a questo attacco”, sembrava cioè una reazione sotto il profilo comunicativo ad un evento terroristico».

 

Faccia di mostro e il Range Rover. Insomma, tanto Calabrò quanto Villani indicano la presenza di personaggi esterni alle ‘ndrine in tutta questa vicenda, che arrivano con macchine di grossa cilindrate e, a specifica domanda, Calabrò ricorda anche che si tratta di un Range Rover. Un particolare di non poco conto, considerato che, per i magistrati della Dna, quel veicolo è un «marker significativo dell’operatività di un personaggio i cui profili criminali erano stati in altri contesti e in altri scenari ampiamente visitati. Si trattava di un personaggio appartenente ad ambienti dei servizi e ritenuto intraneo a vicende di grande significato». L’identikit porta a Giovanni Aiello. “faccia di mostro”. I magistrati riscontrano come proprio lui compri un’autovettura Range Rover benzina, per un valore di 67 milioni di lire, con immatricolazione a Reggio Calabria. «Calabrò ci parla di un personaggio dal volto strano e guardingo, molto cauto e riservato». Donadio capisce che quelle parole sono una fonte importante. Perché Calabrò fa anche il nome di Lo Giudice. È da lì che nasce l’esigenza di parlare col “nano”, è da lì che promanano tutti quei misteri che ancora oggi aleggiano sul duplice omicidio Fava-Garofalo. Un delitto per il quale manca un capitolo da scrivere: quello dei veri mandanti.

 

Consolato Minniti