In Italia ci sono alcune cose che lo scorrere del tempo e l’evoluzione dei costumi non sono mai riusciti a intaccare, nonostante il loro significato originario sia profondamente cambiato nel corso dei decenni.
Una di queste inamovibili certezze è il Primo Maggio. La festa dei lavoratori, vessillo della sinistra di piazza, si presta come poche altre ricorrenze a un intreccio di retoriche contrapposte: da una parte tutto l’armamentario postcomunista rimodulato su un nuovo proletariato, quello dei precari e delle partite Iva; dall’altra l’accusa d’ufficio della destra, che ha sempre visto questa festa come uno strumento di propaganda di sindacati e bandiere rosse. In mezzo, milioni di lavoratori che, sebbene abbiano perso da tempo ogni tensione ideologica di classe, potevano comunque contare su un giorno di riposo in più. Sullo sfondo restavano tutte le rivendicazioni salariali, le grandi vertenze industriali, le lotte sindacali: cose che per il nuovo proletariato, quello dei precari appunto, non hanno mai avuto grande significato, visto che sono stati sempre soli nella lotta per la sopravvivenza. Se sei un raider senza garanzie né adeguate coperture assicurative, che corre in bici o in moto da una parte all’altra della città per consegnare pizze e sushi, la festa dei lavoratori assume il sapore di una beffa.

 

Eppure, nonostante le profonde contraddizioni, il Primo Maggio ha conservato un significato assoluto, un po’ come il Natale, che pure se non credi, sempre Natale è.
Almeno fino ad oggi. C’è voluto un virus infame e una pandemia mondiale per rendere drammaticamente evidente quanto sia debole il nostro sistema economico, quanto sia interconnesso e dipendente da fattori sottratti completamente alla nostra capacità di controllo. La globalizzazione, additata negli ultimi 20 anni come fonte di inaccettabili iniquità tra nord e sud del mondo, non è stata battuta o rimodellata dall’evoluzione del pensiero progressista, ma da un coronavirus enormemente più piccolo di un globulo rosso.

 

Alla fine il livellamento delle condizioni economiche c’è stato, ma non attraverso una ridistribuzione della ricchezza, bensì attraverso una ridistribuzione della povertà. In un contesto economico così compromesso dalla pandemia (e siamo solo all’inizio), la Festa dei lavoratori assume significati inediti che scardinano la retorica consolidata del concertone, che quest’anno ovviamente neppure ci sarà.

 

La controparte non è più il datore di lavoro, con il quale condividiamo lo stesso sgomento per il futuro che non si vede, la stessa incertezza su quello che sarà. Il nemico che sta rosicchiando i nostri risparmi, che sta riducendo le nostre buste paga, che ci sta costringendo all’inattività totale o, al contrario, ad orari di lavoro impossibili (a cominciare dal personale sanitario) fuori da ogni contrattazione, non è un capitalista assetato di profitto, ma un virus.

 

Oggi, a causa del Covid-19, siamo davvero tutti più uguali, appiattiti sotto il peso di una pandemia che ha versato sabbia negli ingranaggi dell’economia come neppure le guerre mondiali e la grande depressione del ’29 erano riuscite a fare. Il Primo Maggio diventa così, per la prima volta, di tutti: di padroni e operai, di rider e multinazionali del cibo, di precari e piccoli imprenditori con il capannone in periferia. Diventa la festa dei lavoratori che verranno, quando questo incubo sarà passato. Perché ora, da festeggiare, c’è davvero poco.


degirolamo@lactv.it