Nessuna interdittiva antimafia alla persona fisica che non svolga attività imprenditoriale, neppure se si tratta di un libero professionista. È questa, in estrema sintesi, la decisione con la quale il Tar di Reggio Calabria ha recentemente accolto il ricorso di un cittadino reggino che si era visto notificare l’informazione interdittiva antimafia dalla Prefettura di Reggio Calabria, a seguito dell’affidamento, da parte di un Comune della provincia, dell’incarico professionale avente ad oggetto la redazione di una progettazione preliminare.

I fatti

La vicenda ha inizio il 21 luglio 2021, quando la Prefettura di Reggio Calabria notifica al professionista reggino una interdittiva antimafia, a seguito di richiesta formulata dal Comune della provincia. A carico del destinatario dell’interdittiva vi è una condanna riportata in Appello per i reati di abuso d’ufficio e falso ideologico con l’aggravante mafiosa. È questo l’unico punto preso in considerazione dalla Prefettura reggina per l’emissione del provvedimento interdittivo, mentre alcun rilievo assume l’annullamento, da parte dei giudici d’appello, dell’assoluzione dal reato di concorso esterno in associazione mafiosa. I reati per i quali viene condannato il professionista, comunque, risalgono all’anno 2010. La difesa dell’uomo rimarca come lo stesso abbia ricevuto l’interdittiva non già come imprenditore, ma quale persona fisica, libero professionista, nell’esercizio della sua attività. Il Tar, con ordinanza del 9 settembre 2021, accoglie la domanda cautelare sia tenendo conto del considerevole lasso temporale intercorso tra il conferimento dell’incarico (2011) e l’adozione del provvedimento impugnato; sia della circostanza che l’incarico fosse stato assegnato come persona fisica e non già come imprenditore.

La questione da decidere

Ma su cosa si è effettivamente pronunciato il Tar? Lo si evince dalle motivazioni della sentenza, dove i giudici spiegano che il punto risolutivo della controversia «verte unicamente sulla questione se la persona fisica che non riveste la qualità di titolare di impresa o di società possa essere destinatario di una informativa antimafia di tipo interdittivo».

Cosa afferma la legge

A tale quesito, i giudici reggini hanno dato risposta negativa. La ragione risiede innanzitutto in ciò che la legge afferma sul punto. Il sistema della documentazione antimafia – spiega il Tar – si basa sulla fondamentale distinzione tra due tipologie di provvedimenti: la comunicazione antimafia (richiesta per l’esercizio di qualsivoglia attività dei privati soggetta ad autorizzazione, concessione, abilitazione, iscrizione ad albi, segnalazione certificata di inizio attività e c.d. silenzio assenso) consistente nell’attestazione, nei confronti dei soggetti individuati dall’art. 85 (D. Lgs. 159/2011), della sussistenza o meno di una delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto di cui all’art. 67; l’informazione antimafia operante nei rapporti dei privati con le pubbliche amministrazioni e che consiste, oltre che nella medesima attestazione inerente alle cause di decadenza, sospensione o divieto di cui all’art. 67, altresì «nell’attestazione della sussistenza o meno di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate indicati al comma 4».

Per quanto concerne l’informazione antimafia, il Prefetto può estendere gli accertamenti ai soggetti che possono determinare in qualsiasi modo le scelte o gli indirizzi dell’impresa, desumendo il tentativo di infiltrazione mafiosa da provvedimenti di condanna (anche non definitiva) per reati strumentali all’attività dell’organizzazione mafiosa e da altri concreti elementi da cui desumere che l’attività d’impresa possa essere in qualche modo condizionata.

Le motivazioni del Tar

Da tutto ciò ne è disceso come il sistema della documentazione antimafia «sembri univocamente orientare nel senso che l’informazione antimafia interdittiva possa essere applicata esclusivamente nei confronti delle imprese, in qualunque forma siano costituite, e non anche nei confronti dei privati che svolgano attività professionali, non organizzate in forma di impresa, e di lavoro autonomo «anche intellettuale in forma individuale». Tale conclusione, affermano i giudici, «figura pienamente coerente con la funzione assolta dall’accertamento antimafia nei confronti della persona fisica, che è infatti quella di misurare il grado di probabile inquinamento mafioso dell’impresa in cui essa risulta inserita o collegata al punto di impedire a quest’ultima di avere rapporti con la P.A. o di ottenere iscrizioni o provvedimenti a contenuto autorizzatorio, concessorio o abilitativo per lo svolgimento di attività imprenditoriali, comunque denominati».

Ancora, secondo i giudici, «l’interdicibilità di una persona fisica che non svolga attività di impresa esporrebbe il sistema antimafia a plausibili riserve di compatibilità costituzionale, implicando inevitabilmente uno straripamento dell’istituto dai limiti “strutturali” che lo caratterizzano, tramutandone la funzione da misura amministrativa di tipo cautelare a preventivo, in una sorta di pena accessoria tipica dell’ordinamento penale, in violazione dei principi di legalità formale e sostanziale e di “prevedibilità” della sanzione.

Da ultimo, quindi, per i giudici non vi era ragione alcuna che giustificasse l’adozione di un provvedimento, come quello impugnato, «così gravemente pregiudizievole della sfera giuridica del privato, sia a livello economico che a livello personale e sociale, con conseguente distorsione della finalità dell’informazione interdittiva, orientata alla tutela dell’ordine pubblico economico e della libera concorrenza nel mercato e non a “punire” la vita privata del singolo nelle manifestazioni della sua personalità che, pur afferendo alla sfera lavorativa, non si esplichino in ambito imprenditoriale».