Sei smartphone a disposizione, cinque sim intestate a soggetti stranieri attivate fuori regione e quasi cinquemila conversazioni dal carcere verso i familiari e poi verso due donne indagate, anche loro residenti a Tropea, pronte ad effettuare ricariche telefoniche al boss detenuto e, addirittura, a creare un falso profilo Facebook da far usare al capobastone di Tropea. E’ quanto scoperto dalla Guardia di Finanza indagando sul boss di Tropea Antonio La Rosa, 63 anni, detto “Ciondolino”, detenuto dal 22 ottobre 2020 al 21 maggio 2021 nel carcere di Avellino dopo l’arresto avvenuto il 19 dicembre 2019 nell’ambito della maxioperazione Rinascita Scott.

Dalla nuova inchiesta denominata “Call Me” – coordinata dalla Dda di Catanzaro – emerge che Antonio La Rosa manteneva quotidianamente contatti con l’esterno servendosi di telefonini fatti recapitare dietro le sbarre. In particolare, le telefonate erano dirette verso: la moglie Tomasina Certo, 61 anni (arrestata e da martedì in carcere); la figlia Cristina La Rosa, 33 anni (da martedì in carcere); il genero – compagno della figlia Cristina – Davide Surace, 40 anni, di Spilinga (arresto in carcere); il figlio Domenico La Rosa, 40 anni (finito agli arresti domiciliari); Carmela La Torre, 43 anni, di Tropea (indagata a piede libero); Loredana Molina, 56 anni, di Tropea (indagata a piede libero).

Il profilo Facebook fasullo

Il 21 maggio 2021, gli agenti della polizia penitenziaria del carcere di Avellino effettuavano una perquisizione nella cella occupata da Antonio La Rosa trovando un telefonino. “A decorrere da tale data – sottolinea il gip – sono cessati tutti i canali di contatto di La Rosa ed è stato possibile censire un totale di 4.709 telefonate dallo stesso effettuate dal carcere”. Il complesso delle conversazioni tenute tra Antonio La Rosa e i suoi familiari ha fatto emergere il suo interesse per “le sorti della consorteria criminale durante la sua assenza”, con indicazioni rese alla moglie e al genero – quest’ultimo preferito al figlio Domenico La Rosa nella gestione degli affari di famiglia – sulla riscossione del denaro, sul suo sostentamento in carcere, sugli affari della famiglia e sui pagamenti dovuti ai difensori.

In tale contesto, ad avviso degli investigatori, sono emerse le figure di Carmela La Torre e Loredana Molina, entrambe di Tropea, le quali per gli inquirenti e il gip intrattenevano delle relazioni con Antonio La Rosa.

Le due donne avrebbero utilizzato con il detenuto La Rosa “il telefono cellulare da lui posseduto illegalmente all’interno dell’istituto carcerario, rispondendo alle sue assidue telefonate nella consapevolezza dell'illiceità della condotta”, con Carmela La Torre che avrebbe anche effettuato delle ricariche telefoniche in favore dei telefonini usati in carcere da Antonio La Rosa.

Loredana Molina avrebbe invece acconsentito alla richiesta di Antonio La Rosa (veicolata via telefono) affinché la donna creasse in favore del boss di Tropea un falso profilo sul social network Facebook al fine di controllare e monitorare, sempre su Facebook, un soggetto di interesse del La Rosa. “La ricerca non è subito fruttuosa e i due cercano, secondo le funzionalità dell'applicativo, di capire come trovare il profilo di questa persona – sottolinea il gip – di cui non hanno il nick name, utilizzando per lo scopo anche gli account della sorella della donna”. Le contestazioni per le due donne (La Torre e Molina) sono aggravate dalle finalità mafiose in quanto con le loro presunte condotte avrebbero agevolato la consorteria criminale di cui La Rosa ne è a capo da decenni.

Il gip sulla gravità indiziaria

Ad avviso del gip, per tutte le persone entrate in contatto con il detenuto Antonio La Rosa, attraverso l’uso di telefonini, sussiste “la gravità indiziaria” quanto al reato di accesso indebito a dispositivi idonei alla comunicazione da parte di soggetti detenuti. Sempre per il gip, inoltre, il fatto che Cristina La Rosa detti al padre al telefono il nuovo numero di un cellulare ceduto al boss da altro detenuto pugliese, così come le ricariche telefoniche effettuate per gli smartphone in uso al boss detenuto, “sono chiari indici della piena consapevolezza da parte non solo e non tanto di Antonio La Rosa, ma anche di tutti i familiari e delle altre due donne – La Torre e Molina – della illiceità di tali interlocuzioni”.

Il genero preferito dal boss al figlio

Ogni telefonata di Antonio La Rosa, attraverso l’uso illecito di telefonini arrivati in carcere, è stata monitorata dalla Guardia di Finanza che ha condotto sul “campo” l’indagine denominata “Call Me”. Si è così scoperto che nel corso delle conversazioni, Davide Surace di Spilinga, compagno di Cristina La Rosa, ad avviso del gip, “pendeva dalle labbra del suocero Antonio La Rosa, soprattutto per quanto riguarda le dinamiche più delicate all'interno della famiglia, quando il nipote Alessandro La Rosa stava creando dissidi”. Per il resto, Antonio La Rosa si sarebbe affidato a Davide Surace “e non solo al figlio Domenico La Rosa, ritenuto buono dal padre ma non idoneo, per l'azione da portare avanti sul territorio”. Ad avviso del gip occorreva rapportarsi con gli avvocati e cooperare all’interno della famiglia e nessuno – secondo Antonio La Rosa – sarebbe stato in grado di farlo se non Davide Surace, in quanto lo stesso Antonio La Rosa riteneva il figlio Domenico nelle intercettazioni come “bravo, ma anche uno che si confonde con queste cose”, concludendo con un chiaro messaggio (“sono più tranquillo che ci sei tu”) rivolto a Davide Surace e rammaricandosi il La Rosa di avere lasciato fuori dal carcere diversi affari a metà. In ogni caso, i contatti “illeciti tra padre detenuto e figlio libero” costano a Domenico La Rosa gli arresti domiciliari.

Nelle successive telefonate, proprio l’argomento della consegna del denaro sarebbe quindi divenuto un argomento ricorrente. Nonostante la detenzione di Antonio La Rosa per la maxioperazione Rinascita Scott, diversi commercianti e imprenditori della zona avrebbero infatti continuato a versare denaro al clan di Tropea e in una conversazione del 9 agosto 2020 Antonio La Rosa “ha invitato il figlio Domenico ad andare a ritirare lui personalmente i soldi, evitando che andasse a prelevarli il fratello Francesco La Rosa, del quale evidentemente non si fidava”.

A tal proposito sarebbe stata Tomasina Certo (moglie di Antonio La Rosa e madre di Domenico) a specificare al marito che “si erano accordati per fine mese, con la donna che si dimostrava a conoscenza di tali equilibri – evidenzia il gip – che chiaramente venivano ricordati da La Rosa e venivano regolarmente gestiti dai familiari in libertà”.