Il racconto della tragedia

Scafisti aguzzini con una donna incinta al nono mese: «Hai sete? Una bottiglia 30 euro». Abdul racconta come è morta la sua famiglia

Un giovane del Kurdistan iracheno si è precipitato a Roccella dall'Inghilterra appena saputo del naufragio al largo della Calabria: 4 i suoi parenti deceduti tra cui la giovane che aspettava un bimbo. «Erano in 76 su una piccola barca a vela. Quando è affondata sono passate 5 imbarcazioni ma nessuno si è fermato»

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di Vincenzo Imperitura
21 giugno 2024
14:37

«Ieri sono andato sulla spiaggia di Roccella e ho raccolto quattro pietre. Una per ogni membro della mia famiglia morto nel naufragio. Le porterò a mia zia». Abdul è giovane uomo originario del Kurdistan iracheno. Da anni vive in Inghilterra ma in questi giorni si trova in Calabria: da lunedì gira come una trottola per gli ospedali di Locri, Polistena, Soverato e Reggio dove sono ricoverati gli 11 sopravvissuti dell’ennesima tragedia del mare sulla rotta turca.

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È arrivato qui dopo avere saputo dalla sua famiglia del naufragio nel tratto di mare tra Grecia e Italia. Su quel veliero c’erano 4 membri della sua famiglia che cercavano una vita migliore in Europa: suo cugino Aram con la moglie Male, incinta al nono mese, e le loro due figlie di 4 e 6 anni, Mansa e Mayli. «Lunedì mattina mi ha chiamato mia madre – racconta a LaC News24 nel cortile dell’ospedale di Soverato – piangeva e gridava il nome di Aram. Quando sono riuscita a tranquillizzarla mi ha spiegato che mio cugino era a bordo di una barca in viaggio verso l’Italia e che aveva sentito alla tv che la barca era affondata. Ho fatto una ricerca sui social e su internet e due ore dopo ero su un aereo diretto in Calabria. Quando sono arrivato vicino all’ospedale di Locri continuavo a pregare: Dio ti prego, fammene trovare almeno uno in vita. Almeno uno, ti prego. O se sono morti, fammi almeno trovare uno dei loro corpi. Lì ho incontrato la polizia e ho mostrato loro le foto dei miei parenti sul telefonino. Loro sono stati molto gentili, hanno preso il mio telefono con le foto, mi hanno chiesto di aspettare e sono andati a controllare. Sono stati via circa mezz’ora e quando sono tornati mi hanno detto: mi dispiace, lei ha perso la sua famiglia, ci sono solo undici sopravvissuti e purtroppo nessuno di loro somiglia alle persone delle foto».


Il viaggio

Locri, Soverato, Polistena: Abdul in questi giorni ha girato senza sosta tra gli ospedali dove sono ricoverati i superstiti del naufragio per parlare con loro e cercare di recuperare qualche notizia sulla sorte dei suoi familiari che si erano imbarcati dalla Turchia con la speranza di un futuro migliore. «Mi hanno raccontato tutti la stessa storia – dice ancora Abdul trattenendo a stento le lacrime – quella era una barca di lusso, ma era piccola e quando sono partiti erano in 76, tutti stipati sotto coperta. Me lo ha raccontato Iaia – uno dei superstiti, ricoverato con ustioni e contusioni – che nel periodo passato assieme in Turchia prima della partenza aveva fatto amicizia con mio cugino. La moglie di mio cugino era incinta di quasi nove mesi e lei ha iniziato a stare male e a chiedere dove è il cibo? Dove è il cibo? Ma gli scafisti le hanno detto non c’era cibo per loro. E neanche acqua, ma che avrebbero potuto venderle dell’acqua, 30 euro per una bottiglia. Solo dopo qualche ora le hanno dato una pasticca contro il dolore».

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Il naufragio

Fermi in mezzo al mare da giorni per un avaria al motore, la situazione dentro la piccola imbarcazione peggiora in fretta. «Tutte le persone che stavano sulla barca chiedevano di avere un po’ di cibo perché loro sapevano che gli scafisti continuavano a mangiare: c’era un frigo sulla barca ma il frigo era chiuso a chiave. A un certo punto il frigo è esploso, non mi hanno saputo spiegare perché, ma da quello che mi hanno detto i sopravvissuti l’esplosione non ha ferito nessuno. Dopo lo scoppio però il frigo ha iniziato a gocciolare e quando quel liquido ha raggiunto il motore, questo ha preso fuoco. Non so se la falla si è creata con l’esplosione del frigo o con l’incendio del motore, solo Dio lo sa, ma le onde erano alte e la nave era in balia del mare e del vento e dopo pochi minuti si è girata su se stessa e tutti sono caduti in acqua. I bambini sono stati i primi a andare giù. Nessuno di loro sapeva nuotare. Anche la moglie di mio cugino è stata tra le prime a venire sommersa dal mare agitato».

I mancati soccorsi

Nel caldo soffocante di un tranquillo giovedì di giugno, davanti ad un ospedale dove sono ricoverate due donne miracolosamente scampate al mare, Abdul interrompe per qualche minuto il suo racconto. Cerca le parole giuste da usare. «Forse la cosa più triste di questa vicenda è un’altra – dice riportando le parole dei sopravvissuti – che tipo di cuore possono avere le persone? Cinque barche sono passate vicino al relitto, cinque.  Le persone in mare chiedevano aiuto, gridavano “salvateci salvateci” mentre lottavano con la forza del mare. Iaia ha cercato di raggiungere una di queste barche a nuoto, ma loro non si sono fermati, non li hanno aiutati. Nessuno di loro li ha aiutati. E loro sono rimasti in acqua. E ora dopo ora qualcuno moriva. Iaia che aveva conosciuto mio cugino in Turchia gli teneva la mano, gli diceva di non guardare l’acqua. Quando una barca gli è passata vicina ha provato a nuotare verso di loro ma non si sono fermati, quando poi Iaia è tornato mio cugino era morto».

 

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