«Andate a vedere se i vostri cari sono ancora lì al cimitero», dice il procuratore Camillo Falvo. Sepolcri violati, cadaveri distrutti e fatti sparire. Una «palmare evidenza», scrive il gip di Vibo Valentia Marina Russo.

Sono le immagini di quella microcamera installata dalla Guardia di finanza nelle adiacenze del cimitero di Tropea ad inchiodare gli indagati: Francesco Trecate, il custode, dipendente comunale addirittura premiato dal Municipio, l’estate scorsa, per il suo stacanovismo; Salvatore Trecate, figlio di Francesco; Roberto Contartese, il presunto complice. Restituiscono, le immagini agli atti dell’inchiesta coordinata dal procuratore Camillo Falvo e dal pm Concettina Iannazzo, «scene a dir poco raccapriccianti». Il sospetto – spiega il procuratore Falvo – è che dietro lo scempio dei morti vi fosse un mercimonio di loculi cimiteriali: salme estumulate e fatte sparire per fare posto ad altre. Gli scheletri, spogliati degli indumenti, «frantumati a mani nude o con l’uso di seghe e coltelli», poi raccolti in sacchi neri e gettati chissà dove o dati alle fiamme. Gli indumenti bruciati, assieme alle bare, prima frantumate con asce e picconi. Sembra un film dell’orrore.

Dall’ordinanza del gip Russo: «L’episodio del 20 novembre appare particolarmente ripugnante». Solito rituale: la bara sfasciata, Francesco Trecate tira fuori la salma, la spoglia e «inizia a sezionarla riponendo i resti, con l’ausilio di Contartese Roberto, in dei sacchi di plastica dopo averne mozzato il capo e mostrato ai presenti (quasi a mo’ di trofeo)». C’è Francesco Trecate, inquadrato. Con lui il figlio, Salvatore, Contartese, ma anche altri due uomini (non indagati): sono gli operai (entrambi identificati dalla Guardia di finanza) di un’impresa impegnata in alcuni lavori edili all’interno del cimitero. Tutto viene accatastato e bruciato. «Nella giornata successiva, nel loculo ove era seppellita la salma carbonizzata è stata seppellita una nuova salma», è scritto nell’ordinanza. Episodi analoghi nei giorni e nelle settimane successive.

I militari delle Fiamme gialle documentano tutto, anche con mirati sopralluoghi. Il 20 gennaio, poi, ricevono un esposto. È l’unico agli atti di un’indagine che documenta episodi gravi che si sarebbero reiterati – sospettano gli investigatori – da molto, molto tempo: lo firma Pietro Di Costa, ex titolare di un istituto di vigilanza privata e testimone di giustizia che «rappresentando la commissione di svariate ipotesi criminose, ha segnalato la sparizione delle salme dal cimitero di Tropea e la pretesa di danaro da parte del custode cimiteriale per procedere alla tumulazione delle salme in regime di monopolio di fatto». È proprio all’indomani della denuncia di Di Costa che «gli indagati iniziano ad assumere particolari cautele», ma continuano – emerge dalle indagini – la loro scellerata attività. I finanzieri aggiungono ulteriori elementi: risalgono un testimone che nel 2019 si era recato a rendere visita alla tomba del nonno, trovandola vuota. Si rivolse al custode per sapere che fine avesse fatto la salma del congiunto e, rassicurando sulla possibilità che fosse ritrovata, si sarebbe persuaso a non sporgere denuncia.

Sono così «acclarate le condotte di estumulazione, distruzione e soppressione di cadavere oltre quelle inerenti allo smaltimento di rifiuti cimiteriali mediante l’abbruciamento». Non sono sufficienti, invece, gli elementi per riconoscere la possibile sussistenza di un’associazione a delinquere. «Quanto alle esigenze cautelari, dagli atti emerge in maniera chiara e netta che gli indagati sono dediti alla commissione di gravi delitti contro la pietà dei defunti attuati con fredda lucidità, con modalità cruente e a dir poco deprecabili; evidenza, questa, che refluisce inevitabilmente sulla sussistenza del pericolo di reiterazione criminosa». A carico degli indagati viene anche riconosciuto il rischio di inquinamento probatorio. Per il gip, alla luce del granitico impianto accusatorio, è necessario il carcere per tutti e tre indagati.