È uno dei punti cruciali dell’inchiesta di Salerno sulla presunta corruzione alla Corte d’Appello di Catanzaro. Ecco i motivi della sentenza relativa al boss Patitucci che il giudice arrestato sostiene di aver venduto alla difesa. Nell’ultimo interrogatorio scagiona il collega estensore, Cosentino, che sarebbe stato ignaro delle sue trame. Le troppe contraddizioni nel suo narrato e l’estremo rigore della Procura campana
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«Il consigliere estensore firma anche in luogo del presidente per impedimento di questi». La sentenza, pronunciata il 4 dicembre del 2019, viene depositata in cancelleria il 4 maggio 2020. È un processo importantissimo: imputati Franco Patitucci e Roberto Porcaro, capo storico e boss emergente della nuova sanguinaria ‘ndrangheta cosentina nata dall’alleanza tra gli Italiani e gli Zingari, che avrebbero ordito - secondo la Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro - l’uccisione di Luca Bruni, erede del clan “Bella Bella”.
Corte d’Assise d’appello, sezione seconda
Il consigliere estensore è Fabrizio Cosentino, toga dalla carriera fin qui immacolata. Chi non può firmare è Marco Petrini, presidente della Corte d’Assise d’Appello di Catanzaro, il cui impedimento è determinato dall’ordinanza restrittiva della sua libertà personale emessa dal gip di Salerno.
Anzi, il gip di Salerno l’ha arrestato due volte: la prima a gennaio, nell’ambito di un’inchiesta che ha svelato un presunto, vasto e al tempo stesso disinvolto sistema di corruzione negli uffici giudiziari catanzaresi; la seconda a fine aprile, una settimana prima che fossero depositati i motivi della sentenza di secondo grado sull’omicidio Bruni, perché, dopo aver intrapreso la collaborazione con i requirenti campani, Petrini si sarebbe reso protagonista di rivelazioni mendaci, contraddittorie, di un goffo tentativo di ritrattazione e, quindi, di un palese inquinamento probatorio.
La sentenza e il contesto
E la sentenza sul delitto Bruni, nell’inchiesta sul presunto verminaio catanzarese, assume un ruolo chiave. Petrini, giudice corrotto reoconfesso, è indagato, anche testimone, ma non è certo lui il dominus delle investigazioni. Ed il rigore dimostrato dal procuratore Giuseppe Borrelli, dall’aggiunto Luca Masini e dal sostituto Vincenzo Senatore, rivela che Salerno va avanti senza sconti di sorta, ovviamente, ma con la cautela necessaria.
Il rigore della Procura di Salerno: il caso Sculco
Non reggono – ad esempio – le autoaccuse e le accuse di Petrini, in relazione alla vicenda corruttiva nella quale chiama in causa l’ex consigliere regionale Enzo Sculco e l’avvocato Mario Nigro. La storia, in sintesi, è questa: gli inquirenti perquisiscono Petrini e trovano i biglietti di Crotone-Milan, ceduti dal potente politico crotonese al magistrato; quando interrogano la toga catanzarese sott’inchiesta, chiedono conto di quei tagliandi; dice di averli ricevuti come corrispettivo per l’emissione di un provvedimento favorevole allo stesso Sculco.
Ma i pm sospettano che Marco Petrini su alcune cose stia bluffando: hanno una terza indagine aperta su queste vicende e, in questo solco, acquisiscono la sentenza emessa dalla Corte d’Appello di Catanzaro nei confronti di Sculco. Sorpresa: Petrini non faceva neppure parte del collegio che l’aveva pronunciata. E, per giunta, quel verdetto non era di accoglimento ma di non luogo a procedere rispetto all’istanza presentata dall’avvocato Nigro nell’interesse sempre di Sculco. Insomma, di vero c’era solo che Petrini aveva quei biglietti, il resto tutto smentito.
Il pasticcio di Petrini
E priva di riscontro, dallo sviluppo delle indagini, è anche la vicenda corruttiva per la quale - aveva sostenuto in prima battuta la toga finita in arresto – l’ex procuratore di Crotone Franco Tricoli gli avrebbe consegnato 5.000 euro per favorire in un procedimento i Vrenna. Petrini, in ciò sosteneva che fosse compartecipe nell’aggiustamento del processo anche il giudice relatore.
Ma il procuratore Borrelli e i suoi scavano e scoprono che Petrini non faceva parte del collegio giudicante al processo per la confisca ai Vrenna. E non ne faceva parte neppure il collega magistrato che, accusava, sarebbe stato compartecipe nella corruzione. Messo con le spalle al muro, Petrini ritrattava questa e tutte le altre accuse mosse nei confronti dei suoi ex colleghi della Corte d’appello di Catanzaro, sia su questa sia su altre presunte torbide vicende corruttive: Fabrizio Cosentino, Antonio Saraco, Domenico Commodaro, tutti estranei, dalla storia e dal contegno limpidi e, ovviamente, non indagati.
Una sentenza “venduta”?
E qui torniamo al processo d’appello per l’omicidio Bruni. Nell’interrogatorio del 25 febbraio, in breve, Petrini viene chiamato a ripercorrere quello che in altri precedenti colloqui con i pm campani aveva già descritto ovvero la presunta corruzione imbastita, in tempi diversi, con la difesa del boss Patitucci (in primo grado era stato condannato a trent’anni di carcere, mentre Roberto Porcaro veniva assolto).
Dice di aver informato del patto anche il relatore Cosentino ma di non avere avuto notizie sulla effettiva dazione di denaro al collega. Il 17 aprile 2020 viene messo sotto torchio di nuovo e ripercorre tutto da capo.
Racconta in particolare di Manna: «Non avevo notizia del fatto che in precedenza Manna avesse mai versato somme di denaro a giudici per ottenere provvedimenti di favore». Però conferma di avergli chiesto soldi e di aver ricevuto 2.500 euro dopo la sentenza favorevole relativa alla confisca di alcuni beni di un imprenditore cosentino. Testuale: «La somma mi venne consegnata qualche giorno prima della dazione che si riferiva al processo Patitucci. Preciso, circa una ventina di giorni prima». L’accordo, però, per questo procedimento lo avrebbe stipulato con l’altro difensore, l’avvocato Luigi Gullo.
Ricordiamo che in questo interrogatorio, Petrini ribadisce - contrariamente a quando affermato nei verbali precedenti- il comportamento lineare e corretto del collega Cosentino, il quale sarebbe stato invece ignaro del fatto che il presidente della Corte d’Assise d’appello si fosse invece “venduto” la sentenza per l’omicidio Bruni: «La decisione del processo Patitucci trovava il suo fondamento nello svolgimento dell’istruttoria dibattimentale – sostiene Petrini davanti ai pm di Salerno – durante la quale uno dei collaboratori di giustizia si era reso protagonista di una progressione dichiarativa, oltre che nell’affermazione dei principi giurisprudenziali in tema di chiamata in correità. Tra l’altro, vi era una sentenza definitiva che, per il medesimo omicidio, condannava altre persone».
In pratica, Petrini sostiene che in punta di diritto era convinto che Patitucci andasse assolto, ma si sarebbe fatto pagare lo stesso. Ricordiamo anche che sia l’avvocato Manna che l’avvocato Gullo non risultano indagati. E che Manna ha smentito ogni suo coinvolgimento in vicende illecite.
Il racconto dei pentiti
Ma come è stata motivata l’assoluzione del boss Patitucci nelle sessanta pagine della sentenza al processo per l’omicidio Bruni depositate il 4 maggio scorso? Premetteva – il giudice estensore – che il gup di Catanzaro aveva pronunciato il suo verdetto mantenendo quale fonte di prova primaria le dichiarazioni di Franco Bruzzese, ex boss del clan Rango-Zingari poi pentitosi e autoaccusatosi di essere uno dei mandanti del delitto. Delitto “approvato” anche altri pezzi da novanta della mafia bruzia, da Ettore Lanzino a Franco Patitucci, appunto. Altra carta fondamentale per l’accusa, le dichiarazioni di un altro pentito, Adolfo Foggetti, esecutore materiale reoconfesso dell’omicidio.
C’è una sfumatura nel racconto dei due collaboratori: secondo Bruzzese, Patitucci approvò il piano, secondo Foggetti invece «non si oppose e non sollevò alcuna obiezione». Terza carta cruciale, il narrato di Daniele Lamanna, altro pentito, altro esecutore materiale reoconfesso dell’omicidio. Dice di aver incontrato Patitucci in carcere e di aver appreso direttamente dalla sua voce che era stato stipulato l’accordo con Bruzzese: era stato «disposto e decretato» l’omicidio Bruni. Patitucci avrebbe detto a Lamanna che, una volta tornato libero, doveva rivolgersi a Bruzzese che gli avrebbe dato indicazioni.
Il movente – per l’accusa – era da ricondurre nel pericolo che Luca Bruni rappresentava per gli altri clan, gli Zingari ma anche gli Italiani. Egli mirava a prendere il posto del fratello Michele, deceduto a causa di un grave male, al comando di un casato mafioso ormai ad un bivio: risorgere o scomparire. A Roberto Porcaro, invece, viene attribuito un ruolo evanescente anche dal giudice di primo grado che, in sintesi, così ne ha giustificato l’assoluzione, poi confermata in appello.
Un «progressivo aggiustamento»?
Ma torniamo a Patitucci. È scritto nella sentenza assolutoria d’appello: «Quello che emerge dal complesso della collaborazione è un progressivo aggiustamento delle dichiarazioni di Bruzzese… Emerge al contempo il ragionevole dubbio sul fatto che, se pure Patitucci possa aver “dato ragione” alla richiesta di Bruzzese, approvandone – con parole o con semplici gesti, anche su questo oscilla, come si vedrà, il dettato dei collaboratori – il proposito, egli abbia potuto esprimere una semplice opinione personale, senza alcun apporto rafforzativo…». E ancora, secondo la sentenza, non sarebbe neppure chiaro «quale autorità avesse, quanto alle decisioni omicidiarie», proprio Patitucci, quando sempre secondo la Corte d’Assise d’Appello di Catanzaro a comandare erano «Rinaldo Gentile, Presta, Lanzino».
E adesso?
Ripercorre, la sentenza, il narrato dei tre principali collaboratori ma anche di altri e rivela in coda «le lacune investigative, i punti di dubbio e di contraddizione», che – secondo la Corte d’Assise di Catanzaro – appaiono «insormontabili».
Patitucci, che le indagini della Dda indicano come un boss di primissimo piano, invece per la Corte non avrebbe un ruolo definito nel «gruppo associato diretto da Presta e Lanzino». Non sarebbe stato neppure chiaro come abbia espresso il suo assenso all’omicidio che, pertanto, sarebbe stato d’interesse solo per gli Zingari, i quali avrebbero agito in autonomia, ma non per gli Italiani. Per questi motivi, viene riformata la sentenza di primo grado: da una pena di trent’anni all’assoluzione. Ora la Cassazione. E le indagini di Salerno.
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