La truffa scoperta dalla Guardia di finanza. La condotta della consorte di ’zi ’Ntoni Mancuso si perpetuava da anni ed in parte è prescritta
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Così fan tutti… Anche la moglie del capomafia. Che avrà sì sposato lo zi’ ’Ntoni, ma non ha mai rinunciato alla vita di campagna. Anche lei, l’anziana Maria Cicerone, beccata dalla Guardia di finanza a truffare il Ministero delle Attività produttive, avendo incassato «indebitamente» - secondo i militari del maggiore Giuseppe Froio, ma anche secondo il procuratore Camillo Falvo (nella foto) ed il pm Concettina Iannazzo, e soprattutto secondo il gip Marina Russo, giudice terzo che ha firmato il decreto di sequestro - una pioggia di contributi a sostegno dell’agricoltura.
Classica storia di truffa all’italiana con una protagonista (ancora presunta, è sempre bene sottolinearlo) apparentemente insospettabile. Già, perché se sei la sposa di uno dei capi storici di quello che a suo tempo fu definito come «uno dei clan finanziariamente più potenti d’Europa» (copyright Commissione parlamentare antimafia, anno 2003), è difficile che qualcuno pensi che possa richiedere, architettando un illecito, i fondi europei erogati da Agea-Arcea per sostenere il reddito e la produttività dei coltivatori diretti che ne hanno bisogno. E, invece, è successo.
Anzi, dal 2010 ad oggi, la donna indagata - che è difesa dall’avvocato Giuseppe Di Renzo - avrebbe beneficiato di circa 100.000 euro di fondi europei. Di questi, però, solo una parte residuale, 20.000 euro circa, cioè quelli erogati dal 2014 ad oggi, sono oggetto del sequestro per equivalente disposto dal gip Russo, risultando il grosso della somma frutto di una presunta condotta illecita ormai caduta in prescrizione. Semplice, quanto collaudato ed efficace, il sistema truffaldino: l’indagata, titolare di un’impresa agricola, presenta all’Agea-Arcea e alla Regione, tramite la Coldiretti, domande per i contributi pubblici allegando contratti di locazione di terreni in verità fittizi. Sembra tutto okay e l’agenzia preposta eroga i contributi. Va avanti per anni così, finché il Nucleo di Polizia economico-finanziaria della Gdf vibonese inizia a sospettare che qualcosa non quadra. Così i finanzieri acquisiscono tutta la documentazione per operare una sorta di ricalcolo delle somme in ragione delle caratteristiche dei terreni locati, ed è qui che scoprono la magagna: contratti farlocchi, firme artefatte, la solita truffa.
Truffa tanto più clamorosa considerando che l’imprenditrice agricola settantunenne, poi segnalata all’ufficio requirente guidato dal procuratore Falvo è la consorte del più anziano tra i capi del clan Mancuso, quelli della cosiddetta “dinastia degli undici”, ovvero il ceppo di undici fratelli (diversi tra i quali già deceduti) dal quale trae linfa il blasone di uno dei casati mafiosi più potenti su scala internazionale.
Il ruolo apicale di Antonio Mancuso, classe ’38 (nella foto)- fratello maggiore di Luigi Mancuso, superboss del casato oggi imputato cardine del maxiprocesso Rinascita Scott - fu infatti riconosciuto nell’ambito del maxiprocesso Dinasty – Affari di famiglia. Venne indicato – con il fratello Luigi ed il nipote Giuseppe “‘Mbrogghjia” detenuti – come uno dei due coordinatori (l’altro era l’ormai defunto fratello Pantaleone alias “Vetrinetta”) dell’intero clan. Nei suoi confronti furono anche istruiti diversi altri procedimenti: Dinasty 2, dal quale uscì assolto, e Black Money, nel quale ha rimediato solo una condanna non definitiva per estorsione. Ma uno dei successi processuali più importanti, per l’anziano boss, come la consorte sempre assistito dall’avvocato Di Renzo, fu l’annullamento in Cassazione di una confisca da 2,5 milioni di euro. Cifre enormi, al netto degli “spiccioli” che sarebbero stati truffati all’Arcea.