«Lo ricordo come un uomo delle Istituzioni particolarmente vicino a noi familiari perché aveva una conoscenza diretta e personale di zio Nino». Così Giovanni Falcone è ancora vivo nella memoria di Natale Polimeni, nipote all’epoca poco più che ventenne del giudice Antonino Scopelliti, che mai dimenticherà quella tarda sera del 9 agosto 1991. Falcone era arrivato da Roma per stare accanto ai genitori, alla moglie, alla figlia Rosanna di soli sette anni e ai familiari tutti dell’amico e collega Nino, appena assassinato a Campo Calabro.

«Ricordo il suo sorriso amabile, ricordo il lungo abbraccio tra lui e mia zia Rosetta, che incessantemente piangeva. Mi ricordo di uno uomo dello Stato che venne in Calabria per stare vicino a noi familiari», ha raccontato ancora Natale Polimeni. Anche la figlia Rosanna, all'epoca troppo piccola per potere oggi ricordare quegli istanti così delicati e difficili, ha sempre riferito di lunghe telefonate tra suo padre e Falcone che evidentemente si stimavano molto.

Già dalla sera del 9 agosto 1991 giungevano in visita a Campo Calabro, a casa del giudice Scopelliti, altri rappresentanti dello Stato e tra loro anche l’allora ministro di Giustizia, Claudio Martelli e la funzionaria suo Capo di Gabinetto Livia Pomodoro. Il giorno dopo sarebbe arrivato il presidente della Repubblica Francesco Cossiga per i funerali di Stato ai quali parteciparono pure il ministro dell'Interno Vincenzo Scotti, il prefetto Raffaele Lauro, il capo della Polizia Vincenzo Parisi, il comandante generale dell'Arma dei Carabinieri Antonio Viesti, il presidente della corte Costituzionale Aldo Corasaniti, il procuratore generale Pietro Gaeta, il presidente della Regione Calabria Rosario Olivo, il senatore calabrese Antonino Murmura, il procuratore generale della Cassazione Vittorio Sgroi. Una grande rappresentanza istituzionale per una morte violenta ed evidentemente eccellente che ad oggi non ha ancora alcun responsabile accertato.

Natale Polimeni, giovanissimo avvocato che poi avrebbe seguito il processo per l’omicidio dello zio, e il padre Francesco, anche lui avvocato e primo cugino del magistrato appena ucciso, quella tarda sera c’erano e oggi rammentano nitidamente Falcone seduto nel salone di casa con Rosetta e Franco, sorella e fratello di Nino Scopelliti, mentre ricorda un uomo di grande levatura morale e un magistrato integerrimo. «Giovanni Falcone disse con grande fermezza che il maxiprocesso contro Cosa Nostra, che lui, Borsellino e gli altri giudici del pool avevano faticosamente istruito, sarebbe stato difeso benissimo da Antonino Scopelliti, il Procuratore generale che avrebbe saputo portare a termine il suo compito con il rigore e la serietà necessari», ha ricordato ancora Natale Polimeni. Ma non gli fu data la possibilità di onorare quell'incarico così importante.

«In quei giorni erano appena arrivati a Campo Calabro i numerosi faldoni del Maxiprocesso al quale stava lavorando mio cognato Nino. Erano talmente tanti che erano rimasti anche sulle scale. Salendo quelle stesse scale, Falcone quella sera li riconobbe», ha raccontato Giulia Taverniti, moglie di Franco, fratello di Antonino Scopelliti.

Una visita in cui Giovanni Falcone manifestò la piena consapevolezza di quanto la sua vita fosse in quel momento a rischio. «Ricordo che mio padre disse a Falcone che lui era riuscito a sopravvivere all'attentato mentre suo fratello Nino era morto. Ricordo anche la risposta lucida di Falcone che ammise di avercela fatta la prima volta e che non era affatto certo che ce l'avrebbe fatta una seconda. Si aspettava dunque che qualcosa di grave sarebbe accaduto presto anche a lui», ha raccontato il nipote del giudice e figlio di Franco, Domenico Scopelliti.

«Furono proprio il Maxiprocesso e gli esiti che non fu possibile sovvertire, a determinare le morti di Antonino Scopelliti prima, al momento dell'ultimo grado di giudizio, e di Falcone e Borsellino poi, visto che le condanne furono confermate. Scopelliti, Falcone e Borsellino dunque dovrebbero essere ricordati insieme», ha sottolineato Francesco Polimeni, che si dovette occupare del riconoscimento del corpo del cugino Nino e che assistette a Roma alla perquisizione della sua stanza.
«Era un uomo davvero buono, Nino, pronto a dispensare a tutti consigli e ad aprire le sue porte. Di Falcone ricordo la stessa prontezza nel capire persone e situazioni ma ricordo anche quella sensazione, per lui una lucida consapevolezza, del pericolo in cui proseguiva a lavorare e a vivere», ha evidenziato ancora Francesco Polimeni.

Nove mesi prima della strage di Capaci

Due anni erano appena trascorsi dall'attentato all'Addaura e quelle parole pronunciate quella sera in Calabria, solo nove mesi prima della strage di Capaci del 23 maggio 1992, in cui Giovanni Falcone perse la vita con la moglie Francesca Morvillo e con la sua scorta composta da Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, sono ormai impossibili da dimenticare.
«È rimasto un ricordo indelebile di Giovanni Falcone e di Antonino Scopelliti, due uomini che hanno avuto, alla fine, lo stesso destino per lo stesso processo», ha concluso il nipote Natale Polimeni.

Il lavoro di Giovanni Falcone e del Pool

Coordinare le indagini per garantire un flusso costante e aggiornato di informazioni in modo da monitorare il più compiutamente possibile tutti i segmenti del complesso fenomeno mafioso, che all’ombra dell’ondata terroristica iniziava a divorare l'intero Paese. Disse sì a questo metodo, valido ancora oggi come allora, Rocco Chinnici prima e, dopo il suo assassinio per mano della mafia il 29 luglio del 1983, il successore Antonino Caponnetto quando sostennero la creazione del pool antimafia che istruì a Palermo il primo maxiprocesso contro Cosa Nostra della storia giudiziaria del nostro paese. Ne facevano parte Giovanni Falcone e Paolo Borsellino - ucciso 58 giorni dopo, il 19 luglio del 1992 nella strage di via D'Amelio, in cui furono uccisi anche gli agenti della scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Con loro, nel pool, anche Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta.

L'esilio e il Maxiprocesso di Palermo

Fu il processo penale più imponente di sempre, 460 imputati, istruito da Falcone e Borsellino nella prima metà degli anni Ottanta. Quel giudizio per delitti di mafia iniziò il 10 febbraio 1986 e terminò il 30 gennaio 1992, con la conferma in Cassazione di 19 ergastoli e di oltre 2600 anni complessivi di reclusione.
Un lavoro avviato tempo prima. Estate 1985. Erano appena stati uccisi i poliziotti Beppe Montana e Ninni Cassarà. Falcone e Borsellino furono trasferiti nell’isola bunker di Asinara, in Sardegna, con le loro famiglie. L’ordine di trasferimento era stato disposto dal capo del pool antimafia palermitano, Antonino Caponnetto, al solo scopo di proteggere i due magistrati e i familiari.

Durante quell’esilio fu avviato quel lavoro meticoloso su quei faldoni, che poi sarebbero stati inviati nell'estate del 1991 a Campo Calabro all'indirizzo di Antonino Scopelliti. Dopo quell'esilio, tuttavia, accadde anche altro. Giovanni Falcone, al quale venne preferito Antonino Meli alla guida del pool dopo Caponnetto, venne trasferito a Roma, nominato direttore generale degli Affari Penali mentre, nel dicembre 1986, l’amico e collega Paolo Borsellino fu nominato Procuratore della Repubblica di Marsala. Questo fu il preludio della fine.

Ciò nonostante gli attuali strumenti con cui si contrasta la mafia oggi sono il frutto di quell'esperienza: la Direzione Nazionale Antimafia (organo della Procura Generale presso la Corte di Cassazione istituito proprio nel 1991 e guidato dal Procuratore nazionale Antimafia), le DDA (procure della Repubblica presso i tribunali dei capoluoghi di distretto di corte d’appello), l’aggressione alla dimensione economica criminale della mafia, poi compiutasi con l’intuizione di Pio La torre della confisca dei beni.

Antonino Scopelliti

Pubblico ministero presso la procura della Repubblica di Roma, poi presso la procura della Repubblica di Milano, quindi procuratore generale presso la Corte d'appello e infine sostituto procuratore Generale presso la Suprema Corte di Cassazione. Si occupò di mafia e anche di terrorismo, rappresentando la pubblica accusa nel primo processo sul caso Moro ed in quelli relativi al sequestro dell'Achille Lauro, alle stragi di Piazza Fontana e del Rapido 904. Tra i processi a lui affidati anche quello contro Cosa Nostra. Quell’estate lavorava infatti al rigetto dei ricorsi avverso le condanne in appello presentati, dinnanzi alla corte di Cassazione, dagli imputati nel maxiprocesso di Palermo.
Pur restando probante l'ipotesi che il suo delitto sia stato un agguato, frutto di un accordo tra Cosa Nostra e Ndrangheta, contrariamente alle stragi di Capaci e di via D'Amelio a Palermo, ad oggi il suo delitto è ancora senza responsabili accertati, dunque, senza verità e giustizia.