Si è soffermato a lungo sui rapporti con i clan dei Pesce e dei Bellocco di Rosarno, il collaboratore di giustizia Emanuele Mancuso nel corso del suo esame condotto dal pm Annamaria Frustaci, affrontando anche i legami con le altre cosche del Reggino. «Luigi Mancuso aveva rapporti con i Pesce e in una campagna doveva incontrare Marcello Pesce, all’epoca latitante e che venne arrestato tre giorni dopo. In quel terreno dove si dovevano incontrare – ha spiegato il collaboratore –, Pantaleone e Francesco Perfidio erano soliti nascondere i soldi del narcotraffico sotto terra. Trovammo delle telecamere sul sentiero che puntavano la campagna di Assunto Megna ed io stesso ho smontato tutto trovando anche un trasmettitore e un’antenna radio. Mi dissero che li avevo salvati». I Pesce sarebbero stati di casa a Nicotera, secondo Emanuele Mancuso, avendo anche diversi immobili in lidi di Nicotera, mentre Francesco Pesce (alias “Ciccio Testuni”, figlio di Antonino Pesce) sarebbe stato alleato con un ramo dei Mancuso (gli ‘Mbrogghja).

L’intervento di Luigi Mancuso, secondo Emanuele Mancuso, si sarebbe rivelato decisivo anche per dirimere altra vicenda che interessava i Ferrentino di Laureana di Borrello. «Domenico Piccolo di Nicotera aveva un debito con soggetti di Laureana per la cessione di sostanze stupefacenti e una volta si è messo a sparare contro uno dei Ferrentino, venuto a riscuotere. Solo l’intervento di Luigi Mancuso – ha dichiarato il collaboratore – è riuscito a far calmare la situazione».

In altre occasioni, invece, Luigi Mancuso si sarebbe recato a Caroni di Limbadi per partecipare ad alcuni summit. «Si tenevano a casa di Sonny Cannizzaro il cui padre è intimo amico di Giuseppe Mancuso, il figlio di Giovanni Mancuso, diventato poi l’autista di Luigi Mancuso. In questa casa – ha riferito Emanuele Mancuso – si tenevano summit e si facevano mangiate a cui partecipavano Luigi Mancuso, Antonio Piccolo e altre persone di Rosarno. Ricordo che Domenico Piccolo in carcere aveva avuto una discussione con uno dei Bellocco che poi l’aveva massacrato di botte, anche perché Piccolo era stato trovato con delle lamette che gli erano cadute dalle tasche. Dei rapporti di Luigi Mancuso con i rosarnesi mi informarono anche Giuseppe De Certo e William Gregorio, quest’ultimo figlio di una Bellocco, mentre in carcere Dimitri De Stefano di Reggio Calabria mi disse che le famiglie De Stefano e Mancuso erano alleate e si rispettavano molto. I Mancuso erano anche alleati ai Raso-Albanese di Cittanova».

La bomba al negozio Splendidi e Splendenti

Emanuele Mancuso svela quindi in aula anche chi e perché ha deciso il danneggiamento del negozio “Splendidi e Splendenti” di Nicotera contro cui è stata fatta esplodere una bomba la notte del 17 dicembre 2017. «Il negoziolo doveva aprire un imprenditore di Rosarno che aveva smesso di pagare la mazzetta a Francesco Pesce, detto Ciccio Testuni, di Rosarno, da quando Pesce era stato arrestato. In più aveva deciso di aprire il nuovo negozio a Nicotera – ha raccontato il collaboratore – senza chiedere il permesso a Luigi Mancuso. Venne da me Totò Prenesti, un personaggio del clan che spara ed è intimo di Luigi Mancuso, il quale mi disse che dovevo incendiare il negozio perché così aveva deciso Luigi Mancuso. Il negozio non doveva aprire poiché a Nicotera senza il consenso di Luigi Mancuso non si può aprire nessuna attività. Così di notte mi sono recato con Mirco Furchì e Ciprian Stratulat ed abbiamo prima svaligiato il negozio rubando tutto ciò che potevamo e poi io ho buttato dentro una bomba che ha fatto parecchi danni».

Le liti in famiglia per i biglietti della giostra

Altro episodio raccontato dal collaboratore si riferisce invece alla cessione di diversi biglietti allo stesso Emanuele Mancuso da parte del titolare di una giostra in quel periodo ferma a Nicotera. Una cessione di biglietti che avrebbe provocato le rimostranze da parte di Giovanni Rizzo, alias “Mezzodente”, figlio di Romana Mancuso, ma anche di Giuseppe Raguseo, genero di Cosmo Michele Mancuso (fratello di Romana Mancuso). «Siamo venuti alle mani con Giovanni Rizzo – ricorda Emanuele Mancuso – ed io gli ho rotto il setto nasale. Giovanni Rizzo si è allora rivolto a mio cugino Antonio Mancuso, figlio di Peppe Mancuso (‘Mbrogghja), per essere io portato in un capannone di Mezzodente ed essere preso a schiaffi. Mio cugino, però, per evitare che mi pestassero mi portò a Cittanova a casa dei Raso dove rimasi ben tre giorni nascosto. Alla fine fu raggiunto un accordo nella mia famiglia: quando mio padre sarebbe uscito dal carcere sarebbe stato lui e solo lui a dovermi picchiare e non Giovanni Rizzo. Il chiarimento arrivò così nel 2007 quando, uscito mio padre dal carcere, a casa vennero a trovarci Giovanni Rizzo e suo fratello Leo Rizzo che parlarono con mio padre il quale mi prese a schiaffi».

L’incendio a Limbadi ed il carabiniere che si rivolge a Rizzo

Siamo intorno al 2005, quando dopo l’operazione “Dinasty” dell’ottobre 2003, con quasi tutti i Mancuso detenuti a rappresentare l’articolazione di Luigi Mancuso sarebbe stato – ad avviso del collaboratore – Pasquale Gallone, mentre quella di Giuseppe Mancuso sarebbe stata rappresentata da Pino Gallone (fratello di Pasquale). «Nicola Drommi, figlio di quel Salvatore Drommi poi scomparso per lupara bianca – ha ricordato Emanuele Mancuso – faceva parte del mio gruppo ed aveva litigato con il figlio di un certo Castagna di Limbadi il quale aveva pestato lo stesso Drommi che ci diede così dei soldi e ci siamo recati a Limbadi per mettere trenta litri di benzina sotto la casa di questo Castagna e poi dare fuoco a tutto. L’incendio fece arrabbiare moltissimo Giovanni Rizzo, detto Mezzodente, poiché in quel periodo era lui ad avere il controllo del territorio di Limbadi ed a riscuotere le estorsioni e fu infatti poi lui a massacrare di botte il padre di Castagna in quanto Mezzodente era legato da rapporti di comparaggio con Nicola Drommi».

Per scoprire chi avesse incendiato la casa a Castagna, ad avviso di Emanuele Mancuso, un carabiniere del luogo si sarebbe rivolto a Giovanni Rizzo al fine di avere informazioni, mentre in occasione di una rapina alla Crai di Santa Domenica di Ricadi, lo stesso carabiniere sarebbe riuscito a far confessare l’azione criminale ad uno dei complici di Emanuele Mancuso per quindi arrivare ad altro soggetto arrestato (Simone Caprino) il quale, oltre a consegnare l’arma, avrebbe accusato pure Alfonso Cuturello. Un’accusa, quest’ultima, resa in un interrogatorio in assenza del difensore e quindi non valida. Alla fine, in carcere per la rapina ci restò solo Emanuele Mancuso, accusato dagli altri sodali di aver fatto anche lui il nome di Alfonso Cuturello.

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