VIDEO | L'ex sindaco del Comune reggino sul conto del prefetto che fece ispezionare i servizi per l'accoglienza non è tenero: «Faceva parte di un sistema che mi ha impacchettato influenzando le Relazioni ispettive»
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«Pagherei anche con 2 o 3 anni di galera in più, pur di sapere la verità su come Michele Di Bari effettivamente trattò il modello Riace, quando era prefetto di Reggio Calabria». Mimmo Lucano, nel commentare per la prima volta alle testate giornalistiche calabresi le dimissioni del Capo dipartimento Immigrazione del Viminale, non dimentica la condanna in primo grado comminatagli dal tribunale di Locri.
Non la depenna affatto, in quello che chiama «ragionamento politico che la notizia mi induce a fare», al punto che – nel ribadire le accuse al servitore dello Stato che ha lasciato per via del coinvolgimento della moglie in un’inchiesta contro il capolarato – si affretta a precisare «non cerco alibi, non mi interessa commentare per avere rivincite, non sono affatto felice per quello che ipotizza la procura di Foggia».
Lucano aveva già rilasciato dichiarazioni a Il Manifesto, nell’immediatezza del fatto giudiziario, ma ora che il caso politico nazionale rimane al centro del dibattito – e anche forze politiche di sinistra come Leu chiedono che il ministro Lamorgese relazioni alle Camere – va oltre il dato di cronaca.
«Non mi interessa collegare il prefetto alle eventuali responsabilità della moglie – argomenta - non auguro il male a nessuno né cerco alibi: Di Bari mi interessa per il ruolo che ha avuto da prefetto di Reggio Calabria, per le sue intenzioni che io avevo capito per tempo e a maggior ragione aspetto oggi chiarezza». Nel ripetere le perplessità di sempre, Lucano torna al clima cambiato dopo l’arrivo in riva allo Stretto dell’uomo che poi Salvini promosse al ministero - «Qualcuno in prefettura mi diceva stai attento – ricorda – perché io avevo buoni rapporti con diversi funzionari di quegli anni, poi arrivò l’attività di monitoraggio fatta dai funzionari dello Sprar e guarda caso uno di loro viene poi arrestato, addirittura».
Misteri e coincidenze che non si fermano qui. L’ex sindaco ricorda di essere stato lui stesso a chiedere che dopo questa prima Relazione - «che stranamente conteneva solo cose negative» - una verifica alla prefettura.
«Arrivano gli ispettori Gullì, Iannò e Di Giglio – prosegue – quest’ultimo ha avuto problemi con il centro di Varapodio, per il quale è tutt’ora indagato. Ho notato un atteggiamento ostile, come se qualcuno dall’alto avesse ricevuto l’ordine di dimenticare le cose buone che avevamo fatto e di infierire. Non a caso forse una delle Relazioni, quella del dicembre 2016, arriva prima a Il Giornale che al Comune e si avvia così la denigrazione mediatica».
Elementi che al di là delle responsabilità penali che saranno oggetto di un processo di Appello, perché da quelle Relazioni partì l’indagine della procura di Locri sulla gestione dei servizi per l’accoglienza e la condanna a 13 anni e 2 mesi – rinvigoriscono l’accusa politica che i sostenitori di Lucano hanno sempre urlato. «Mi hanno impacchettato – si sfoga lui oggi - con la complicità di un sistema che ha portato a tutto questo: è stato tutto studiato a tavolino». Visti i tanti casi sulla spesa dei fondi per l’accoglienza, scoppiati in tutt’Italia, Lucano spera che si accendano i riflettori sulla gestione di Di Bari.
«Intanto però – conclude in relazione alla vicenda giudiziaria – la mia è una risposta anche di orgoglio: abbiamo messo in atto delle pratiche completamente diverse dal senso di sfruttamento e questo ci fa dire che Riace deve continuare».