Così il carabiniere ricattava la sua vittima: «Tu ci tieni alla famiglia?»

Armanno Palummo, vicebrigadiere dello Squadrone eliportato “Cacciatori” Calabria di Vibo Valentia, è stato arrestato nei giorni scorsi con l'accusa di concussione insieme al collega Mirco Carafa

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di Angela  Panzera
25 febbraio 2019
22:51

«Ha abusato della sua qualità e delle informazioni a lui note in quanto appartenete all’Arma dei carabinieri». Non usa mezzi termini il gip di Palmi, Dionisio Pantano, che ha ordinato l’arresto di Armando Palummo, vicebrigadiere in servizio allo Squadrone eliportato “Cacciatori” Calabria di Vibo Valentia, in quanto accusato del reato di concussione.

In particolare, secondo le indagini effettuate dai carabinieri del gruppo di Gioia Tauro, sotto il coordinamento dal procuratore di Palmi Ottavio Sferlazza e del pm Enrico Barbieri, il militare, insieme al collega Mirko Carafa, in servizio sempre nei "Cacciatori", finito anche lui in manette nei giorni scorsi, avrebbe estorto mille euro a un imprenditore operante nel settore delle palestre e dei prodotti per il fitness. Palummo è stato arrestato in flagranza di reato.


 

Un piano ben studiato che però, non aveva messo in conto che la vittima, al posto di consegnarli i soldi invece, lo avrebbe denunciato. La vicenda nasce proprio dalla denuncia dell’imprenditore sporta il 23 gennaio scorso ai finanzieri della Compagnia di Gioia Tauro ai quali, senza indugio, dice che Palummo gli avrebbe chiesto il pagamento di mille euro per evitare che una terza persona potesse rendere dichiarazioni accusatorie a suo carico.

«Fretè, tu ci tieni alla famiglia? Che stai facendo? Statti attento, non frequentare determinati ambienti… Ringrazia Dio che ci siamo noi, tu ti fidi di noi?». Queste sono le parole che il militare gli avrebbe rivolto per intimorirlo, facendo finta, invece, di tranquillizzarlo. L’imprenditore non ha nulla da temere ed è per questo che dopo la richiesta decide di rivolgersi alle forze dell’ordine. La vicenda nasce in seguito a una perquisizione che l’imprenditore subisce qualche mese prima nelle sue palestre e nei suoi negozi di sua proprietà, nell’ambito di una inchiesta su un giro di sostanze dopanti. I carabinieri non troveranno nulla, ma comunque gli sequestreranno il telefonino. Un cellulare che gli sarà ridato due mesi dopo, in seguito a un'istanza presentata tramite il difensore.

 

Quel giorno, secondo il racconto della vittima, avrebbe ricevuto un messaggio sull’applicazione di Whatsapp da Palummo, ritenuto suo amico, «il quale mi invitava a recarmi pomeriggio del lunedì successivo presso Vibo Valentia». Un incontro che, però, avverrà il venerdì successivo quando l’imprenditore si recherà insieme a un amico proprio in un bar a Vibo.

«Armando dopo avere preso il caffè – dichiara agli investigatori la vittima – mi riferiva di consegnare il mio telefono all’amico… e di farlo attendere all’interno della macchina, perché mi doveva parlare di una cosa importante. Pertanto ci siamo incamminati… ed io gli rappresentavo il perché di tutte quelle precauzioni, Armando mi chiedeva nuovamente se tenevo alla mia famiglia… Il Palummo a tal punto mi riferiva che era venuto a conoscenza, da parte di un collega dei carabinieri di Gioia Tauro, che c’è un soggetto della Piana che è intenzionato a rovinarmi riferendo fatti su di me- anche non veri- con la produzione di prove documentali… il Palummo mi riferiva che si trattava di anabolizzanti fasulli venduti da me al tizio, che non avendo raggiunto i risultati sperati voleva indietro i soldi».

 

Per gli inquirenti di Palmi questa “terza persona”, che voleva denunciarlo, non sarebbe mai esistita, ma sarebbe stata solo una scusa per incastrarlo e costringerlo a dargli i soldi. «Non si comprende infatti, scrive il gip, per quale folle ragione l’ipotetico terzo interessato ad estorcere denaro all’imprenditore, o comunque a rivalersi nei confronti di quest’ultimo per la fornitura di prodotti per la forma fisica, non idonei alla scopo, avrebbe dovuto individuare in un presunto tutore della legalità, quale dovrebbe essere un appartenente all’Arma dei carabinieri, un suo intermediario nei confronti del soggetto».

 

Nei giorni seguenti infatti, il militare avrebbe continuato a spingerlo a pagare paventando l’ipotesi che se il suo nome veniva accostato al giro del doping a risentirne sarebbero stati soprattutto i suoi affari e ovviamente la sua “famiglia”. «Tu (...) mi devi stare a sentire non mi devi rompere i coglioni… io ti sto aiutando perché tu hai un impero… hai una famiglia… io da carabiniere ti romperò sempre i coglioni… pensa sempre alla famiglia… altrimenti i tuoi amici carabinieri come me… ti girano le spalle tutti quanti… E ne hai due che ti vogliono bene di carabinieri»: queste sarebbero state le “pressioni” per indurre l’imprenditore a piegarsi al suo volere.

 

La vittima quindi denuncia e con una microspia istallata dai carabinieri, dopo aver contattato Carafa,  si presenta all’incontro. Non emerge un diretto coinvolgimento nell’“affare” da parte di quest’ultimo, ma secondo gli inquirenti anche il secondo carabiniere sarebbe comunque invischiato nella vicenda. «Anche in questo caso - chiosa il gip - non si comprende perché, se non sulla base di un previo accordo, un militare “infedele” ai suoi doveri istituzionali, quale il Palummo, avrebbe dovuto informare un suo collega del compimento di un’attività sicuramente delittuosa qual è quella di fungere da intermediario tra due privati intenzionati a dare un valore economico all’essa collaborazione di uno dei due con le autorità inquirenti».
Accuse quindi, pesantissime per i due militari che li hanno visti finire in galera. Un’indagine tecnica che ha visto un intero reparto essere in prima linea per venire a capo di questa brutta storia e soprattutto “fare pulizia” dall’interno senza sconti e omissioni.

 

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