Quattro medici dell'Annunziata di Cosenza, due dei quali in prima linea nella lotta al coronavirus, firmano uno studio che riguarda una terapia sperimentale tentata per la prima volta nell'ospedale in cui lavorano. Ma ad autorizzare la pubblicazione dei dati per fini scientifici, come raccontato nella prima parte di questa inchiesta, è la Mater Domini di Catanzaro e non l'Ao bruzia. Tre di loro (Pasqua, Mendicino e Botta), così come Longhini, figuravano anche tra gli autori dell'articolo sui test con il Ruxolitinib condotti nella città di Telesio, ma quello non è mai stato pubblicato. Difficile comprenderne il motivo finché non abbiamo scoperto che la sera dell'11 aprile, sedici giorni dopo l'inizio dell'esperimento, al momento della revisione collettiva del testo da inviare al New England Journal of Medicine per l'approvazione qualcosa si è rotto nella squadra che stava conducendo lo studio osservazionale. E la collaborazione tra ematologi, rianimatori e infettivologi coinvolti si è trasformata in scontro frontale.

La sera dello scontro

I primi due spingono per mettere a disposizione della comunità scientifica immediatamente le informazioni raccolte. Sono convinti di poter contribuire a svuotare le terapie intensive e salvare vite – i morti in quel momento si contano già a migliaia – e se le loro ipotesi dovessero trovare conferme future dopo le doverose ricerche su un campione più ampio contenere la pandemia sarebbe più semplice. A loro avviso, sebbene si parli di undici pazienti – un terzo dei quali ricoverati a Bari e a Catanzaro, che si sono unite nel frattempo al protocollo sperimentale – i risultati ottenuti promettono bene: i malati – tutti selezionati tra quelli che avevano bisogno di ossigenoterapia – hanno ripreso a respirare autonomamente, ma per confermare che sia merito del Ruxolitinib e non si tratti di un caso fortuito serviranno ulteriori approfondimenti.
I terzi, con in testa Antonio Mastroianni, il primario a capo del reparto dove sono ricoverate quasi tutte le persone oggetto dello studio, la pensano diversamente e rifiutano di dare il via libera alla diffusione dei dati per uso scientifico, nonostante i consensi informati sottoscritti dagli undici prima di iniziare la terapia lo prevedano. Evidenziano che, essendo loro a curarli in corsia, la responsabilità legale sui pazienti non competa ad altri e minimizzano il supporto ricevuto dai colleghi. Ritengono prematuro avventurarsi in pubblicazioni senza prima un'analisi più approfondita delle informazioni raccolte fino a quel momento: perché l'articolo risulti attendibile sono pochi i positivi sotto osservazione e manca una revisione da parte di esterni non coinvolti nel progetto, le critiche principali mosse.
La diversità di vedute è tale da veder messe in discussione finanche le autorizzazioni alla sperimentazione ricevute e la legalità dei protocolli seguiti, circostanze però smentite dai documenti. Troppa fretta da una parte o troppa prudenza dall'altra?

Ruxolitinib vs Tocilizumab

Certo è che a contrapporsi c'erano anche due scommesse terapeutiche differenti: di fronte a un nemico mai affrontato in precedenza come il Covid, ogni scelta dei medici - fossero anche dei premi Nobel -  durante la prima ondata era un salto nel buio. Nel paper che sosteneva le potenzialità del Ruxolitinib si leggeva anche che il medicinale era stato somministrato ad alcuni pazienti trattati in precedenza con Tocilizumab, perché quest'ultimo, dopo un iniziale effetto positivo, non era riuscito ad arginare il peggioramento del loro quadro clinico. E il Tocilizumab, rimedio contro l'artrite balzato agli onori delle cronache di quel concitato periodo per i risultati attribuitigli dall'ospedale Cotugno di Napoli nella lotta alla pandemia, era proprio il farmaco su cui Mastroianni e le due infettivologhe Sonia Greco e Valeria Vangeli – anche loro coinvolte nell'ancora oggi inedito studio sul Ruxolitinib – hanno puntato con decisione per sconfiggere il virus, sulla spinta dei risultati ottenuti in corsia.
La molecola individuata dagli ematologi, invece, li convinceva così poco che i tre, a maggio, pubblicano insieme a due dermatologi del Sant'Orsola di Bologna sull'International Journal of Antimicrobial Agents un breve articolo. Dopo un mese e mezzo ammantato di silenzio, la sperimentazione calabrese fa capolino sulla stampa di settore, ma gran parte dei professionisti coinvolti in origine non è più nella lista degli autori. Anche il grosso dei pazienti è sparito: i cinque medici riportano i casi di due pazienti da loro trattati con Ruxolitinib che hanno avuto reazioni cutanee che reputano preoccupanti. L'ipotesi avanzata è che il responsabile tra i farmaci utilizzati possa essere proprio lui, il suggerimento è di non sottovalutarne la tossicità. Tutto potrebbe cambiare, ma ad oggi questa conclusione appare in controtendenza rispetto alle affermazioni sullo stesso tema di larga parte della comunità scientifica, che attende ora i risultati di un ampio studio internazionale lanciato da Novartis, la casa farmaceutica che produce la molecola e già da qualche anno mette a disposizione dell'Azienda ospedaliera bruzia fondi destinati al suo studio negli ambiti terapeutici approvati e previsti, con un accordo correlato allo studio ROMEI

I dubbi dell'Aifa

Quella in collaborazione con gli emiliani non è l'unica ricerca condotta dai professionisti del reparto di Malattie infettive cosentino in quel periodo. A inizio luglio ne esce un'altra su E Clinical Medicine, costola dell'autorevole Lancet, uno studio retrospettivo inviato alla rivista il 9 aprile, due giorni prima che divampasse la polemica. Alle firme di Mastroianni (autore principale), Greco e Vangeli si aggiungono quelle di altri tre infettivologi, un radiologo e una farmacista, tutti dell'Annunziata. L'argomento principale è il Tocilizumab e alla stesura, pur non sponsorizzando il lavoro, ha collaborato anche Roche, l'azienda che lo produce. Gli autori descrivono gli ottimi risultati ottenuti su dodici pazienti tra marzo ed aprile, grazie a un protocollo ideato proprio da Mastroianni e poi adottato da altri centri – con Cosenza a fare da pilota – che prevede la somministrazione sottocutanea del farmaco, di solito iniettato endovena. Precisano che non c'è stata alcuna review indipendente delle loro osservazioni prima che l'articolo venisse proposto. Le ipotesi sulla reale efficacia del farmaco si scontreranno poco tempo dopo con le affermazioni dell'Aifa, che a metà giugno comunica i primi risultati di uno studio randomizzato condotto su 126 pazienti di 24 differenti centri: il Tocilizumab – scrive l'Agenzia italiana del farmaco – «non ha mostrato alcun beneficio nei pazienti trattati né in termini di aggravamento (ingresso in terapia intensiva) né per quanto riguarda la sopravvivenza». Anche in questo caso ci sarà bisogno di tempo e nuove ricerche prima di avere certezze assolute a riguardo.

Un duello improbabile

Chi ipotizza sordidi intrighi orditi per interessi economici dai due colossi di Big Pharma dietro la divergenza di opinioni dei protagonisti della vicenda calabrese potrebbe restare deluso. Novartis e Roche non sono, per così dire, acerrime rivali. La prima detiene un terzo delle azioni della seconda. E il loro comportamento sul mercato è stato ritenuto in passato ben distante dalle regole della corretta quanto spietata concorrenza, col Consiglio di Stato che ha condannato entrambe a pagare una multa di oltre 90 milioni di euro ciascuna proprio per questo. Per le stesse ragioni la Francia a settembre ne ha inflitta una da 444 milioni, un conto che le due sono chiamate a saldare insieme a Genertech, a sua volta controllata interamente da Roche. Nonostante la posta in palio sia altissima – curare il Covid porterà gloria, gratitudine e introiti da capogiro – appare azzardato ritenere che aziende con questi trascorsi combattano una guerra sporca tra loro.

Il silenzio dell'Azienda ospedaliera

Fin qui la cronaca dei fatti, temerario quanto inopportuno avventurarsi da profani in giudizi di merito su argomenti così tecnici e vicende che vedono contrapposti professionisti impegnati senza tregua da mesi a salvare vite umane. Molto meno chiedere come mai l'Azienda ospedaliera di Cosenza, che come centro promotore della sperimentazione sul Ruxolitinib era quella ad avere l'ultima parola sui dati dei pazienti, abbia preferito far finire la vicenda nel dimenticatoio. Sappiamo che Bettelini aveva preteso una costante interlocuzione tra ematologi e infattivologi, andata però in frantumi la sera prima di Pasqua. Così come che le indiscrezioni sui risultati ottenuti a terapie ancora in corso trapelate sulla stampa nei primi giorni di test sono state ritenute dai vertici aziendali, sempre molto attenti alla riservatezza, motivo di forte imbarazzo, nonostante gli esiti positivi.
Perché non mediare tra le due fazioni affinché il paper, magari con qualche giorno di ritardo rispetto alle previsioni iniziali per affinare meglio il lavoro, fosse pubblicato? Perché non permettere che fosse la comunità scientifica internazionale a valutare se le informazioni raccolte per la prima volta a Cosenza fossero davvero utili o meno? Perché rinunciare a un inusuale ruolo da protagonista nella ricerca con due diversi studi - quello su Ruxolitinib e quello su Tocilizumab - per tornare a far parlare di sé per il sovraffollamento autunnale dei reparti? E se la strada presa per primi e abbandonata senza dare troppo nell'occhio dovesse poi rivelarsi quella giusta, con un primario coinvolto in pieno nella lotta al virus e il Covid manager dell'Ao che credono in un farmaco al punto da firmare un articolo scientifico sui suoi potenziali benefici, chi spiegherà perché all'Annunziata nessuno risulterebbe aver più usato quel medicinale su un positivo ricoverato da primavera a oggi? Tutte domande, con la mortalità tornata a farsi preoccupante, rimaste senza risposta.

 

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