Un ragazzo di ventidue anni, di origini marocchine, viene ucciso in pieno centro cittadino a Corigliano Rossano. Un’esecuzione che passa sotto silenzio, come se quel corpo riverso a terra non meritasse attenzione, né giustizia, né memoria. Se fosse stato un ragazzo di Corigliano Rossano? Se fosse stato il figlio di un noto imprenditore, di un medico, di un politico? O anche solo il nostro vicino di casa, quello con cui si scambia un saluto ogni mattina? Ci saremmo indignati, avremmo chiesto giustizia con forza. Avremmo invocato la presenza delle istituzioni, della politica, dei media. Ma non è accaduto.

Forse la discriminazione si è infiltrata così a fondo nel nostro inconscio che nemmeno ce ne rendiamo conto. Non abbiamo più bisogno di proclamarci razzisti: lo siamo diventati senza accorgercene. Lo dimostrano quelle frasi sussurrate con noncuranza: «Si uccidessero tra di loro».
Frasi che racchiudono un abisso culturale e morale. Come se la vita di quel ragazzo valesse meno. Come se esistessero vite di serie A e vite di serie B. Come se potessimo, con leggerezza, cancellare l’umanità di chi ha un colore di pelle diverso o un cognome straniero. Culturalmente stiamo regredendo. La società di oggi non agevola l’inclusione, ma alimenta la divisione. E quando la distanza tra “noi” e “gli altri” diventa insormontabile, quando l’indifferenza si trasforma in norma, allora abbiamo già perso.

Un ragazzo è morto e ci siamo voltati dall’altra parte. Un ragazzo è morto e tutto è rimasto uguale. Questo non è un problema di immigrazione, di flussi incontrollati o di clandestini. Qui non stiamo parlando di politica migratoria. Qui stiamo parlando di noi, di chi siamo diventati. E di chi vogliamo essere. La nostra è una società che dovrebbe proteggere, includere, valorizzare le diversità. Invece stiamo costruendo muri invisibili, mattoni di pregiudizi, colate di paura e indifferenza. Ma la storia ci insegna che i muri prima o poi crollano, lasciandoci davanti alla nostra vergogna. Il mio appello è rivolto a tutti: alla politica, alla chiesa, alle scuole, alle agenzie culturali e formative. Bisogna rompere il silenzio, alzare la voce, dare un segnale chiaro. Non possiamo lasciare che il nostro mondo si trasformi in un luogo dove un ragazzo muore e non importa a nessuno. Non possiamo accettare che la differenza tra vivere e morire sia dettata da un passaporto o dalla percezione di “diversità” che ci siamo costruiti. Non sono diversi. Sono solo persone più sfortunate. E se non lo capiamo oggi, domani saremo noi a chiederci come abbiamo fatto a diventare così ciechi.