Dopo un iter giudiziario durato cinque anni e le accuse di associazione per delinquere finalizzata all’intestazione fittizia di beni, Ciro e Michele Rosolino, difesi dai legali Zagarese e Abruzzese sono stati assolti «perché il fatto non sussiste»
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È finito nei giorni scorsi l’iter giudiziario durato quasi cinque anni vissuto dal 58enne Ciro Rosolino e dal figlio 31enne. Michele Rosolino, noti imprenditori nel settore della ristorazione, originari di Corigliano dove, negli anni Ottanta, il padre era stato titolare d’una rinomata tavola calda, paninoteca e pizzeria nel centro dello Scalo, prima di trasferirsi nel Nord Italia. A Gabicce Mare padre e figlio avevano aperto il Ristorantino da Ciro e il Ristorante-sala ricevimenti Tre pini.
I sequestri finalizzati alla confisca delle due attività
Proprio i due ristoranti ubicati sulla costa adriatica nella provincia di Pesaro-Urbino al confine con la riviera romagnola, nel mese di luglio del 2020 erano finiti nell’occhio d’un ciclone giudiziario: secondo la magistratura antimafia di Bologna, infatti, le attività dei due congiunti coriglianesi erano “affari di camorra”.
La maxi-inchiesta condotta dalla Direzione distrettuale Antimafia bolognese fu denominata “Darknet” e venne condotta “sul campo” dalla guardia di finanza di Rimini.
Per i due ristoranti scattarono i decreti di sequestro finalizzati alla confisca da parte del giudice per le indagini preliminari del Tribunale del capoluogo emiliano, su richiesta dei magistrati della Procura Antimafia, nell’ambito di un ciclone giudiziario che coinvolse 55 persone, 5 delle quali finirono in carcere e 3 agli arresti domiciliari. Tra gli indagati che finirono agli arresti comunque i due coriglianesi non figuravano.
Il contesto criminale: i clan di Sarno e i casalesi
Secondo la magistratura si trattava di un’organizzazione criminale con al vertice esponenti dei clan camorristici della Campania, in particolare quelli di Sarno e dei Casalesi.
Ben 17 furono le aziende sequestrate (società per l’edilizia, per la manutenzione degli ascensori, pizzerie e ristoranti) del valore di oltre 30 milioni di euro, per i reati di riciclaggio, autoriciclaggio, reimpiego di capitali illeciti per oltre 71 milioni d’euro, trasferimento fraudolento di valori, falsità ideologica e materiale, turbativa d’asta, emissione di fatture per operazioni inesistenti e corruzione di funzionari pubblici per entrare anche ne settore degli appalti.
Nei tre anni d’indagine vi furono un numero da capogiro 412.026 intercettazioni telefoniche relative a 31 utenze, oltre alle intercettazioni di tipo ambientale, ed accertamenti patrimoniali su ben 210 conti correnti. Un fiume di denaro, milioni di euro che però non figuravano in nessun bilancio e quindi mai denunciati al fisco.
Una ritenuta aggressiva associazione per delinquere che si era estesa in tutta l’Italia allungando i tentacoli in ben 15 province ed 8 regioni diverse. Per alcuni degli indagati scattò l’aggravante d’aver commesso quei reati proprio per agevolare i clan camorristici.
Le posizioni dei Rosolino
Le contestazioni a carico di Ciro e Michele Rosolino erano di associazione per delinquere finalizzata all’intestazione fittizia di beni, aggravata dal fine di agevolare l’attività del clan camorristico Sarno operante nel famigerato quartiere di Ponticelli a Napoli.
Padre e figlio sono stati difesi dagli avvocati Aldo Zagarese e Fabio Abruzzese del foro di Castrovillari, i quali, già in fase di indagini preliminari, avevano effettuato un’articolata attività d’indagine difensive dalla quale è emerso che a gestire le due attività di ristorazione “incriminate” fossero realmente gli intestatari e non già per conto di soggetti terzi al fine di eludere le misure di prevenzione previste dalle leggi antimafia.
Lo scorso 26 febbraio, i Rosolino, con i loro legali sono comparsi in Tribunale a Bologna per la celebrazione del processo con rito abbreviato nei loro confronti, al cospetto del giudice per l’udienza preliminare distrettuale Domenico Truppa e del pubblico ministero antimafia Marco Forte: quest’ultimo aveva richiesto la condanna tanto del padre quanto del figlio, con la conseguente confisca dei beni sequestrati nell’estate del 2020.
Il giudice, in completa aderenza alla linea difensiva degli avvocati Zagarese e Abbruzzese, li ha invece assolti entrambi con la formula «perché il fatto non sussiste», col conseguente dissequestro dei due ristoranti.