«Sono passati cent’anni. Cento anni… che vuoi dire?».

Francesca Plutino ha la voce sottile e una lucidità che spiazza. È nata a Bova nel 1924, quando l’Italia era ancora un regno e parlare greco, nella sua famiglia, era normale. «I miei genitori si parlavano in greco tra loro, ma a noi figli non lo insegnavano. Avevano paura. Dopo Mussolini, parlare greco era diventato una vergogna».

Oggi, mentre il tempo sembra aver cancellato tutto, c’è chi prova a salvare ciò che resta. Il regista Egidio Musitano, attraverso la sua associazione, sta raccogliendo le testimonianze degli anziani dell’area grecanica per costruire un archivio della memoria. Un lavoro paziente, profondo, che mira a materializzare il patrimonio umano e immateriale di queste terre. Le voci, i racconti, i silenzi di chi ha vissuto il Novecento diventano così parte di un’eredità condivisa, da custodire e tramandare. La storia di Francesca, come tante altre, è parte di questo patrimonio fragile e prezioso.

La lingua che si spegne non fa rumore. Muore in cucina, tra un gesto e l’altro, nell’assenza. Così è stato per il greco di Calabria: imposto il silenzio, si è fortemente ridotto. Francesca lo ricorda come una ferita che non ha mai smesso di sanguinare: «Noi bambini capivamo, ma facevamo finta di niente. Era meglio non dire nulla». La storia di Francesca è la storia di una cancellazione, e non solo linguistica. È il segno concreto di una politica che ha voluto azzerare la memoria per sostituirla con l’uniformità del potere. Oggi, però, le comunità locali stanno cercando di salvarlo, di rimetterlo in circolo, di non lasciarlo scomparire del tutto. Ci sono scuole, corsi, gruppi spontanei che lavorano per farlo sopravvivere. Ma quel legame naturale, quel passaggio di madre in figlio, è stato spezzato per decenni.

«Quando scoppiò la guerra, non avevamo radio. Le notizie si passavano a voce, arrivavano dai paesi vicini. Nessuno sapeva niente, si cercava solo di sopravvivere». Il fronte non era ancora arrivato, ma la fame sì. Poi arrivarono anche le bombe. E infine, la chiamata. Suo marito, come molti, fu richiamato. Partì per servire la patria e finì prigioniero. I tedeschi dissero che li avrebbero riportati a casa. Invece li caricarono su vagoni merci, chiusi, senza cibo. «Viaggiarono tre giorni e tre notti. Fermi di giorno, si muovevano di notte. Pensavano di tornare, invece finirono nei campi di lavoro».

Nel vagone c’erano solo assi di legno, un secchio per i bisogni, nessuna aria, nessuna sosta. Gli uomini si reggevano in piedi uno contro l’altro. Alcuni non arrivarono mai. Il marito di Francesca sì. Ma quando scese, era già un altro.

Arrivò a pesare 36 chili. Lavorava fino allo sfinimento. «Gli davano una fetta di pane sottile come un’ombra e un pezzo di pasta cruda per tutto il giorno. Se non lavoravi, ti fucilavano». Di notte scavava sotto la rete per recuperare cavoli e patate tra gli scarti. Una notte lo beccarono: calcio del fucile in testa. Si salvò per miracolo. Quando racconta, Francesca abbassa gli occhi, come a cercare il punto esatto in cui finisce il racconto e inizia il ricordo.

Il campo era vicino a uno di concentramento. «Vedeva i forni crematori. L’odore acre, il fumo, li ricorda ancora. Una volta un’asinella partorì. Per fame cucinarono il piccolo. Attaccavano la carne ai muri caldi dei forni per farla cuocere». Quelle immagini sono sopravvissute anche quando tutto il resto sembrava scomparso. Lì, tra il fango e il filo spinato, c’era ancora qualcosa di più profondo del dolore: il terrore di non essere più uomini.

Quando arrivarono gli americani, i prigionieri videro i soldati tedeschi scappare. Non capivano. Poi venne l’annuncio: erano liberi. Ma non poterono tornare subito. Sei mesi in un campo intermedio, per curare la scabbia, i pidocchi, le infezioni. Nessuno poteva rientrare a casa in quelle condizioni.

Quando finalmente tornò, Francesca lo trovò irriconoscibile. «Appena vedeva i maccheroni, sudava. Non riusciva a mangiarli. Gli ricordavano la pasta cruda del campo. Aveva paura anche del cibo». Era giovane, ma portava negli occhi il peso della fame, della guerra e della colpa di essere sopravvissuto. Per mesi, parlava poco. Si svegliava di notte. Si sedeva in silenzio, guardando fuori. E ogni volta che raccontava qualcosa, lo faceva come se gli costasse.

Francesca racconta per lasciare traccia. Racconta perché nessuno lo fa più. Le madri che si vedevano portare via i figli appena nati, i bambini lasciati nelle ruote delle suore, la fame, la paura, le bombe. «Una mia cugina aveva il marito in carcere. Quando partorì, le portarono via il bambino. Glielo diedero in adozione a Bova Marina. Non le dissero neppure dove». È una storia che si ripeteva, sottovoce, in tanti paesi del Sud. Nascere nel momento sbagliato, da una madre sbagliata, significava scomparire.

Poi c’erano quelli che partivano per l’America. «Alcuni tornavano, altri mai. Alcuni non li riconoscevano neppure come figli. Succedeva anche questo». Famiglie divise, lingue spezzate, identità frantumate. «Ci si arrangiava. Ci si vergognava. Ma si viveva. Anche se non si sapeva bene come». Francesca lo dice senza rabbia, come una verità troppo antica per farle ancora male.

Oggi Francesca è una delle ultime voci di quella Calabria che non ha solo sofferto, ma è stata sistematicamente messa a tacere. Prima dal regime, poi dalla miseria, poi dall’oblio. Ha mani magre e occhi fermi. Parla con precisione, anche quando i ricordi si sfilacciano. Ogni parola sembra pesare più del silenzio. «Io parlo perché è rimasto poco. Pochissimo. Ma non è giusto che vada tutto perduto. Noi siamo ancora qui».

È molto più della sua storia personale. È la storia di un popolo intero che non ha mai avuto voce. È il ricordo di chi ha perso tutto, anche la lingua per dirlo. Raccontare oggi Francesca significa recuperare un pezzo di ciò che siamo. È una necessità, più che un atto di nostalgia.

«Sono passati cent’anni. Cento anni… che vuoi dire?». Francesca Plutino oggi lo sa. Lo dice. E lo lascia a chi verrà.