Capita a chiunque, decine di volte al giorno. Entri in un locale, cammini in un parco, sali su un autobus, e il canovaccio è sempre uguale: collo piegato in avanti e dita che scorrono o picchiettano sullo schermo. Coppie abbracciate che si amano via chat, amici su una panchina che parlano via chat, famiglie al ristorante che non comunicano neppure via chat, ma si perdono in quei monitor multicolori.

La tecnologia condiziona pesantemente la nostra vita, dal risveglio fino all’ultimo sguardo al mondo esterno, quello che precede il ritiro in una sfera di cristallo ormai fragile che risponde al nome di “pensiero”.

 

Una delle conseguenze peggiori dell’uso compulsivo di dispositivi elettronici che possiamo portare ovunque è proprio questa: stanno eliminando la facoltà di pensare, di articolare idee, elaborare fatti, notizie o anche semplici pettegolezzi. Oggi non si pensa più. Si leggono idee, articoli, notizie e si scorre via con un pollice con una sufficienza disarmante. O, abitudine barbara, si insulta liberamente, senza cercare di comprendere cosa ci sia dietro un post o, appunto, un pensiero.

Giornata tipo

Senza generalizzare troppo, la giornata tipo di adolescenti, trentenni o cinquantenni è tutta segnata dall’utilizzo di uno smatphone o tablet: apriamo gli occhi grazie all’applicazione Sveglia; controlliamo whatsapp per vedere se l’amico/a, il/la collega, l’amante abbiano avuto un pensiero per noi durante la notte o semplicemente per leggere email e altre comunicazioni di lavoro; il momento di maggiore intimità (l’appuntamento sacro sul trono di porcellana) è scandito dai social, alla ricerca di notizie o gossip locali; poi al lavoro per otto/dieci ore, mentre in pausa pranzo controlliamo ancora i social o rispondiamo ai millemila messaggi dei gruppi whatsapp; e così via, fino a sera, quando continuiamo a smanettare in cerca di partite, talent show, serie tv e film strappalacrime.

Vita on demand

Tutto rigorosamente on demand, altro vero dramma di oggi, perché se siamo interessati al calcio ricorreremo a qualsiasi mezzo per vedere solo e solo quello, precludendoci ogni altro diversivo, magari più costruttivo. Un tempo, infatti, prima dell’avvento di internet, la tv scandiva le nostre giornate e, in un modo o in un altro, eravamo bombardati da temi di ogni genere che ci consentivano un’infarinatura generale, magari molto superficiale, ma pur sempre sfoderabile all’occorrenza, anche al bar di compare Ciccio, davanti a una Dreher ghiacciata.

Oggi, no. Oggi la tv è vista sempre meno, soprattutto dalle nuove generazioni, le quali si trovano spesso di fronte a veri e propri interruttori del pensiero, come può essere un tweet, la spasmodica ricerca di semplificazione di stampo anglosassone secondo la quale meno scrivi e più sei bravo. Idea aberrante: impossibile racchiudere in poche parole concetti che andrebbero sviluppati senza redini.

Gli haters

Da qui, da questa incapacità e impossibilità di elaborare tutto quello che ci troviamo di fronte, dalla presunzione di basarci su un semplice titolo senza andare in fondo alla notizia, senza porci il minimo dubbio (“sapientiae initium”, inizio della conoscenza, per dirla alla Cartesio), discendono poi quelli che oggi sono chiamati haters, i minus habens capaci solo di offendere persone in 2d, di vomitare addosso a uno schermo tutte le frustrazioni della vita, convinti di avere sempre qualcosa da dire.

Il pollice verso

Ma non è tutto: trascorrere intere giornate a leggere post e scorrerli via velocemente con il semplice uso di un pollice, come facevano gli imperatori romani, è una pratica pericolosa, perché si allontana con allarmante sufficienza un concetto espresso da una persona (che magari conosci) a cui riservi un gesto di superbia senza possibilità di replica: le tue idee sono il nulla, va’ via. (che per alcuni andrebbe anche bene, ma mi è stato insegnato di rispettare le idee di chiunque, anche se non condivisibili).

La possibile soluzione

E allora, che fare? Come arginare questo fiume in piena che inonda sinapsi ed emisferi cerebrali? Posiamo il cellulare, verrebbe da rispondere. Scontato. Ma tant'è.

Gli esperti si dicono preoccupati per l’uso dei dispositivi da parte dei più piccoli, perché il rischio è crescere in contatto con un mondo distante da quello reale, con la conseguente incapacità di utilizzare il tratto tipico dei bambini: la fantasia. Una facoltà che anche gli adulti accantonano troppo spesso, ma vitale per esprimere se stessi senza condizionamenti esterni.

 

L’unica salvezza, quindi, è rappresentata dalla manualità: trovare un’occupazione, un hobby, una passione che impegni il fisico (e soprattutto tenga occupate le mani) consente alla mente di sviluppare idee in libertà, anche le più strampalate, ma pur sempre frutto dei nostri neuroni anziché di algoritmi da social. Prendersi cura di un orto, un giardino o un semplice balcone fiorito; passeggiare in un bosco; riscoprire la primordialità del legno o altri materiali naturali, abbassa i ritmi della vita moderna e permette al nostro dna millenario di connettersi con ciò che più ci caratterizza e ha reso possibile lo sviluppo di tutte le civiltà avvicendatesi sulla terra: il pensiero.

 

Al giorno d'oggi è ormai impossibile, si potrebbe rispondere. Ma non ne sarei così convinto. La riscoperta degli orti solidali nelle grandi città viaggia in questa direzione e qualunque educatore o pedagogista è ben consapevole dell’importanza del legame gioco/natura. D’altronde, ci sarà un motivo se una ricerca su 2.200 mamme in Australia, Nuova Zelanda, Stati Uniti ed Europa ha rilevato che il 19% dei bambini di età compresa tra 2 e 5 anni sa utilizzare uno smartphone, mentre solo il 9% sa allacciarsi le scarpe.

 

Alessandro Stella