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La storiella del “se sai parla”, che ogni tanto i coda di paglia mettono al bando per tentare di confondere le acque, deve finire. In Calabria soprattutto. Il caso sollevato da Carlo Tansi in merito alla riorganizzazione delle Protezione civile non solo va preso con sufficiente ottimismo, ma va affiancato, condiviso, esaltato. A memoria d’uomo non si ricorda in Calabria una persona così decisa nell’affrontare seriamente gli atavici problemi. Chiaramente i sindacalisti fanno i sindacalisti. O almeno si ricordano di essere tali quando c’è da difendere il diritto al lavoro. Ed è già una notizia per questa regione, dal momento in cui negli ultimi 10 anni di posti fissi ce ne sono rimasti davvero pochi, quasi tutti da dipendenti pubblici.
Ma Carlo Tansi, che non si dovrebbe considerarlo Dio, ma nemmeno un umile ingegnere nella vigna dei lor Signori, va difeso dalla popolazione onesta e incline al cambiamento, che proprio per non sparare nel mucchio, esiste per davvero in questa martoriata terra di malaffare e malagestio.
Scrive Tansi: “La riorganizzazione, al momento in fase di avviamento, prevede un consistente riefficientamento di tutte le strutture organizzative della Protezione Civile regionale, con il duplice obiettivo di rendere la stessa più efficiente e moderna – in linea con sistemi più avanzati di protezione civile delle altre regioni italiane – e, al tempo stesso, ridurre gli sprechi e le inefficienze che ne hanno notoriamente caratterizzato l’azione nel corso degli ultimi anni”. Questa, in linee generali, è retorica. E piace a tutti, sindacalisti compresi.
Poi però Tansi aggiunge papale papale: “A fronte dell’avvio di tale processo, un gruppo di lavoratori, senza specifiche qualifiche e che negli anni hanno goduto dei privilegi loro garantiti da un sistema inefficiente ed improvvisato, alimentato dalla politica e caratterizzato da sacche clientelari nonchè capace di garantire forti interessi economici, palesando con tutta evidenza il proprio interesse privato”. La retorica lascia spazio alla realtà. E piace a pochi. Sindacalisti compresi.
190 dipendenti, contro 50 della media nazionale, “di cui la gran parte con basse qualifiche professionali che delineano un quadro operativo inadeguato per affrontare efficacemente le calamità naturali in Calabria”. Tra questi gli oltre 30 autisti, per altro senza alcuna abilitazione alla guida di mezzi speciali di cui la protezione civile regionale pure dispone, le quasi 100 unità di personale addetti alle sale operative che godono di turnazione e reperibilità in numero assolutamente sproporzionato a fronte di altre regioni ben più popolose della Calabria anche se esposte alle stesse categorie di rischio (la regione Emilia Romagna, colpita dai violenti terremoti del 2012 ha 3 unità di personale in sala operativa, funzionando perfettamente). E in questo contesto, sono meno di dieci i funzionari tecnici laureati – quali ingegneri, geologi e architetti - indispensabili per la definizione delle condizioni di rischio in fase emergenziale e preventiva in un territorio, quello calabrese, tra i più esposti ai rischi naturali dell’intera area mediterranea”. La realtà supera la fantasia. E non piace a nessuno. Soprattutto ai sindacati.
Come si vorrebbe fare la rivoluzione in Calabria? Bisogna innanzitutto accettare il proprio fallimento, non solo certificato dalle statistiche che vedono costantemente la Calabria ultima degli ultimi, ma anche e soprattutto dalle azioni di prevenzione, monitoraggio e tutela di una regione che a fronte di una macchina organizzativa sulla carta gigantesca paga amaro in termine di rischio persino la consueta e comune pioggia torrenziale d’inverno. O no? Ecco, chi vuol difendere il principio sacro del lavoro, del salario e della dignità umana si faccia un esame di coscienza. E ripeta: ma io fino ad oggi ho aiutato la mia terra a migliorare?