Un vero e proprio rito che si rinnovava ogni novembre seguendo una precisa liturgia. Ecco cosa succedeva nei cortili delle masserie raccontato da chi l’ha visto
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Una delle tradizioni contadine della Calabria più apprezzate al mondo e vanto della nostra cultura, è quella della lavorazione delle carni del maiale. La soppressata, la nduja, le pregiate carni del suino nero calabrese, autoctono della nostra regione, le troviamo sulle tavole dei ristoranti più rinomati dell’intero globo, gradite ai palati più fini. Oggi diverse sono le aziende che operano nel settore che, grazie ai loro prodotti di altissima qualità, hanno conquistato fette importanti del mercato mondiale, ma quando ha avuto inizio tutto ciò?
Da sempre! Sì, proprio così. È dalla notte dei tempi che in Calabria “s’avanza u porcu” e molte famiglie ne conservano ancora oggi la tradizione e ne tramandano il sapere. “Per i bisogni della famiglia”, come viene detto in gergo, precisando e vantando che tutto parte da come si alleva l’animale. Che non deve avvenire in allevamenti intensivi, nel modo crudele e impietoso che tutti conosciamo, ma cresciuto all’aria aperta, in spazi dove poter pascolare liberamente; nutrito con i prodotti genuini della terra, come ghiande, fichi, patate e castagne. Queste carni, e i relativi prodotti, di conseguenza, risultano essere davvero tutt’altra cosa rispetto agli anzidetti prodotti di massa.
“Scannari u porcu” è sempre stato un vero e proprio rito, una festa, un momento a cui l’intera famiglia partecipa, assieme a parenti e amici. Ognuno da il proprio apporto nella fatica e tutti mangiano e bevono in allegria. Ma andiamo a vedere come avveniva, e come verosimilmente ancora oggi accade, nel racconto che segue.
Il 1° novembre di ogn’anno, alla fiera di Tutti i Santi, u nannu comprava ‘u gnirru, ‘nu gnirriùzzu di un paio di mesi e lo avanzava sino all’inverno successivo, quando lo scannava per farne sasìzza, suppressàti, capicòju, pangètta, vucculàru, nduja, zzirìnguli, frìttuli e grassu; pure il sangue veniva utilizzato: unito a zucchero, cacao, noci, cannella e buccia di mandarino, si faceva u sangu a pizza, una leccornia che altro che nutella! E cosa dire delle ossa bollite e spolpate, insieme a muso, orecchie, piedi e coda cotti nella minestra di verdure selvatiche? “Du’ porcu non si jètta nendi! – diceva u nannu – Mangu i pila!”. Infatti, li utilizzavano i scarpàri come aghi per passare lo spago di cucitura delle suole con la tomaia una volta praticato il foro con la lesina. E poi, guardando ‘a nanna, ridendo, aggiungeva: "Cu si marita è cundentu 'nu jornu, cu mmazza u pòrcu è cundèntu n'annu!”.
Appena comprato il nonno chiamava a ‘mbari Jacìndu u Crastatùri che aveva il compito di castrarlo. Con un rasoio da barbiere incideva la parte della bestia ed estratte le ghiandole riproduttive vi strofinava sopra un batuffolo di stoppa intinta nella tintura di iodio e poi suturava il taglio con ago e filo. Prima di Natale dell’anno dopo, raggiunto all’incirca il quintale di peso, il nonno lo ammazzava.
Era una festa, ed io vivevo quella lunga giornata intensamente, attimo per attimo.
La mattina ci si levava ch’era ancora buio, molto prima del sorgere del sole, per giungere in campagna alle prime luce dell’alba. L’incontro con zia Lena e suo figlio Manèli avveniva ò fùndaco e di lì si partiva insieme. La zia Lena era vedova di guerra e Manèli, all’epoca studente di nautico, era il suo unico figlio. Manèli possedeva una bicicletta, e a me, ch’ero ancora ‘nu scorzìgghju, mi metteva a sedere sul manubrio, con le gambe che mi penzolavano sulla ruota anteriore. Mi dovevo tenere forte con le mani e accompagnare tutti i movimenti che il mezzo era obbligato dalla strada a compiere, e lo facevo benissimo, malgrado le paure di mia madre che non osava guardare. La mia giornata super eccitante iniziava già con quell’audace cavajàta.
Giunti in campagna, all’incirca dopo un’ora di cammino, al nostro arrivo, sullo spiazzo davanti casa, il nonno e l’amico ‘mbari Jacìndu u Crastatùri, sempre presente, avevano già acceso il fuoco sotto un treppiedi, messo sopra un grosso calderone di rame e riempito d’acqua. E anche una balla di fieno era già pronta davanti la casa. Era sopra quel fieno che sarebbe avvenuto il cruento atto, dopo avere legato le zampe al maiale e averlo rovesciato sopra. A portarlo docile docile sul luogo come un cagnolino al guinzaglio ci pensava la nonna, che lui conosceva bene perché era lei che l’aveva pasciuto per più di un anno.
Così, stretto dalle corde e tenuto fermo da mio padre, dal cugino Manèli e da ‘mbari Jacìndu, il nonno infilava un coltello lungo e fino nella gola del porco fino a toccargli il cuore; la nonna, piegata per terra raccoglieva in un recipiente il sangue che fuoriusciva dalla scannatìna dapprima a schizzo e poi a fontanella e lo girava velocemente con un cucchiaio di legno forato per non farlo rapprendere. Nel compiere tale operazione, la nonna come buono auspicio ripeteva con cadenza regolare: “Morti a ttìa e salùti ò patruni, morti a ttìa e salùti ò patruni!”, mentre le grida della bestia che veniva scannata pareva squarciassero il cielo e la terra, per poi affievolirsi sempre di più, cessando del tutto con un ultimo sussulto. In questa fase io ero al quanto combattuto, se andare a nascondermi o rimanere a guardare. Ma la curiosità la vinceva sempre. Una volta, durante questa fase concitata, accadde che il porco si mise a pisciare e lo schizzo, parecchio prolungato, andò a finire dritto dritto dentro lo stivale di mio padre che non poteva certo lasciare la presa e abbandonare quella posizione se non voleva che l’animale scivolasse dalla balla di fieno e cadesse a terra. Sarebbe stata poi cosa veramente ardua riposizionarlo ancora vivo e così incattivito. Tutti volevano ridere, ma dato il pericolo che si stava correndo nessuno lo fece, rimandando le risa ad operazione conclusa, quando il babbo si tolse lo stivale e lo svuotò del piscio del porco che ancora fumava.
Se l’animale tardava a morire, la nonna diceva che qualcuno si dispiaceva delle sue sofferenze e, indicandomi, mi urlava di andarmene e di ritornare quando tutto era finito. Io non capivo come quella bestia potesse resistere alla morte perché io me ne dispiacevo e mi sforzavo a dispiacermene di più per capire come ciò fosse possibile.
Una volta ammazzato, l’acqua bollente del calderone serviva per lavare e pelare il corpo del maiale. Cosa che avveniva con l’utilizzo di coltelli affilatissimi come rasoi e poi si procedeva con lo strofinare la cotenna con dei mezzi limoni per disinfettare. Così ripulito, il porco veniva legato dalle zampe posteriori e issato a mezzo di una carrucola assicurata ad una trave che fuoriusciva da uno dei muri della casa. Messo a cosci larghi e a testa in giù, partendo dall’orifizio, il nonno dapprima incideva la cotenna e poi lo divideva perfettamente in due metà. Era di una precisione che sfiorava l’etto e di questo lui se ne vantava.
Il primo ad assaggiare il porco divenuto carne ero io. Il nonno me ne tagliava una piccola fetta e io correvo in casa a metterla sulla brace viva del caminetto. Subito dopo tagliava dei pezzi di carne, grassa e magra, e li dava a nonna che pronta andava a preparare il sugo che avremmo mangiato a pranzo con gli strangùgghj già pronti.
Il resto della giornata si passava a sezionare le parti che nei giorni a seguire si sarebbero lavorate nei modi che abbiamo già detto, compresi i miei preferiti, sasìzzi e suppressàti, riempiendo le budella del porco che zia Lena e mia madre avevano lavato alla fonte.
La strada per la fonte
(di Rocco Greco)
Una stradina ampia quanto basta
per far passare il carro con la bestia
in mezzo a una campagna cheta e casta
conduce ad una fonte argentea e mesta.
L’animo mio ad un tempo andato
d’incanto corre e una visione appare
or quando la pia gente in quel fossato
viveva ancor sudando al sol sul mare.
Il gallo salutava il nuovo giorno
al sole che si alzava sopra i monti,
svegliava la campagna e tutto intorno,
a incominciare il dì tutti eran pronti.
I viali di rugiada eran bagnati,
nel cielo azzurro augelli cinquettavan
allor che i contadin nei campi arati
semenze d'ogni gener seminavan.
Il pane lo facea la contadina,
dopo che alle bestie avea accudito,
dal grano d'or venia quella farina
che il sudor rendea più saporito.
La gioia dei fanciulli era codesta,
attendere che il pane fosse cotto
d'avanti al forno vi era gran festa
allor che profumato l'avean tolto.
Un piatto di fagioli il desinare
qualche cipolla e un bicchier di vino
era il lauto pranzo ai commensali
che lavorato avean a capo chino.
Un casolar di pietra e un letto duro
di fronde secche attendea i cristiani,
appena che il ciel facesse scuro:
riposar dovevan per il domani.
La religiosa gente conduceva
la sua esistenza dedita al lavoro,
sfarzi e ricchezze ella disconosceva,
grata all’Eterno e al Suo capolavoro.