Un racconto tra fantasia e realtà che narra i tormenti di don Agostino, parroco di Roccapizzuta, e di Teresa, che aspirava a diventare suora. Ma il destino aveva in serbo per loro un futuro molto diverso
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Sin da quando era bambino Agostino aveva manifestato una marcata predisposizione alla meditazione e, a differenza dei fratelli che anche nell’anno che avevano ricevuto la prima comunione si erano dimostrati alquanto indifferenti alle esortazioni e ai richiami del parroco, frequentava la chiesa quotidianamente. Era egli attratto dalla vita dei santi e passava gran parte del tempo davanti alle statue esposte nel duomo di san Giorgio, rapito nelle sue contemplazioni. Il parroco, don Vito Masi, che aveva già inteso qualcosa, ne aveva parlato con la madre. Rosina, donna umile e fervida religiosa, alle parole del sacerdote, si inginocchiò e fattasi il segno della croce disse solamente: «Sia fatta la Sua volontà!». E così, terminate le elementari alla scuola del paese, il bambino fu accompagnato da don Vito al seminario di Mileto. Agostino crebbe nella fede del Signore, nutrendosi degli insegnamenti dettati dalle Sacre Scritture. Fin da subito il ragazzo dimostrò di essere uno studente diligente e disciplinato, attento e rispettoso delle regole dettate dall’istituto religioso. Per il fervore e l’impegno con i quali si applicava ben presto si distinse tra i suoi compagni seminaristi tanto da essere il più amato dai suoi maestri che già scorgevano in lui un sicuro prescelto. All’età di ventisei anni, compiuto tutti i passaggi necessari, prese i voti e divenne sacerdote.
Se per Agostino questo era il naturale compimento di quanto già stabilito, per i genitori ciò rappresentava il concreto realizzarsi di una grazia tanto attesa. Quel ragazzo, figlio di lavoratori, gente del popolo, era l’orgoglio di tutta la famiglia e soprattutto della madre, santa donna, che vedeva in lui la giusta ricompensa per tutti i sacrifici fatti nell’avere allevato cinque figliuoli con la poca miseria che il marito Nazzareno riusciva a portare a casa.
Nazzareno Strangio girava per il paese raccattando ferro vecchio, rame, alluminio, cartoni e anche capelli lunghi di donna. Si calava persino nei burroni per raccattare materiale che tanti vi gettavano per disfarsene e il camion dei napoletani che periodicamente passava quel materiale da riciclare glielo pagava un tot a peso.
Era conosciuto da tutti a Roccapizzuta e chiunque avesse qualcosa di vecchio da buttare, cantine e mansarde da svuotare, lo chiamava e Nazareno arrivava con la sua carretta a due ruote da lui stesso tirata e portava via ogni cosa. Pure Agostino, quando il carico era oltremodo pesante, insieme ai suoi fratelli, aiutava a tirare la carretta.
Agostino parroco del duomo di San Giorgio
Come primo incarico, Agostino fu inviato in un paesino della dorsale delle Serre: meno di mille anime da curare, per lo più povera gente dedita all’agricoltura e alla pastorizia. Anche qui Agostino si distinse per il suo impegno e dedizione, divenendo rapidamente un punto di riferimento per ogni parrocchiano. Quella prima esperienza gli servì tantissimo, venendo a contatto con le più diversificate questioni umane, sia materiali che spirituali. Era amato e rispettato ed egli si spendeva per ognuno in ugual misura.
Successivamente, per il motivo che don Vito Masi, il parroco che fu testimone dei suoi primi segni vocazionali, era oramai anziano e malato, da questi sostenuto presso l’episcopato, ottenne di sostituirlo. E fu così che Agostino, lasciato il paesino di montagna, dove vi aveva trascorso oltre un lustro, donando tutto sé stesso e prendendo da ognuno tutto ciò che gli sarebbe venuto buono nel prosieguo del suo servizio, fece ritorno a Roccapizzuta con addosso l’abito talare.
Fu ancora festa. I familiari, con in testa la madre, non stavano nella pelle: “Agostino, il proprio bambino, parroco nel proprio paese!”. Egli, al contrario, conoscendo a fondo la sua gente, viveva la cosa, all’apparenza con molta naturalezza ma, in cuor suo non privo di qualche legittima apprensione, conscio delle difficoltà e del lavoro che l’avrebbero atteso.
Roccapizzuta contava circa diecimila abitanti, una diecina di chiese, tre parrocchie e quattro confraternite, con i rispettivi priori, assistenti, segretari, cassieri e consiglieri vari. Le confraternite all’interno delle chiese contavano molto, ed egli questo lo sapeva bene. Ad esse, oltre ai compiti di natura amministrativa del sodalizio, era destinata la gestione di buona parte del cimitero e le relative vendite ed assegnazioni dei loculi. Agostino conosceva anche le questioni che sovente si sollevavano tra i confratelli, separati in fazioni, per la spartizione delle cariche. Egli aveva scandagliato a fondo l’animo umano e lo conosceva in ogni sua minima sfaccettatura e nella più intrinseca sua peculiarità, perciò non intendeva entrare in certi meccanismi e dai quali, fin quanto possibile, si proponeva di tenersi alla larga da quei sodalizi.
Per la prima messa che don Agostino celebrò, la chiesa era gremita come giorno di Pasqua e al termine dell’omelia i fedeli gli diedero il benvenuto con un prolungato applauso. Nei giorni a seguire, le voci che echeggiavano per il paese, tra i tanti che lo sostennero, sotto sotto, non mancarono i maldicenti che ricordavano suo padre, sporco e madido di sudore, che tirava la carretta e lui stesso, bambino, che l’accompagnava, ed ora sull’altare a predicare il Vangelo e a dare insegnamenti. Ma, si sa che il paese è anche questo.
Il lavoro di don Agostino e i malcontenti causati
Le sue giornate non finivano mai, tanti erano gli impegni che doveva assolvere, ma egli si spendeva con gioia e tanto entusiasmo. Aveva le idee chiare e si muoveva con un progetto ben delineato in testa. Giusto il tempo di guardarsi attorno, la prima cosa che fa appena insediatosi fu quella di far liberare i locali accanto alla sagrestia, appartenenti alla chiesa e che da tempo immemorabile erano occupati da alcune maestranze vicine alla chiesa che li utilizzavano come magazzini dove depositare tavoloni, attrezzi e materiale da lavoro. Fatti ripulire e data una mano di calce, qui diede vita al doposcuola per i ragazzi che avevano difficoltà - e non erano pochi dato il basso indice di alfabetizzazione della stragrande maggioranza delle famiglie. Creò un piccolo palcoscenico dove per la prima volta i giovani ebbero la possibilità di esibirsi, facendo sì che si appassionassero all’arte della recitazione ed affrontando argomenti e temi mai trattati prima. Parlava ai giovani del paese in modo diverso, riconoscendo loro una dignità che non avevano mai avvertito prima, e questi sentivano di non avere più solamente la strada dove potersi esprimere. Finalmente avevano un luogo sicuro, dove venivano seguiti e guidati nella loro crescita individuale e sociale oltre che spirituale. Per molti suoi parrocchiali, quelli più umili, don Agostino era un raggio di luce che il Signore aveva inviato loro.
Tra le sue occupazioni vi era anche quella di recarsi saltuariamente al nuovo istituto delle suore, per le confessioni e portare la comunione alle inferme. Tale istituto era stato costruito da poco tempo ed era questo il frutto di una donazione fatto da una coppia di sposi benestanti che non avevano avuto figli e che alla loro morte avevano nominato loro eredi universali le suore, già allocate in un vecchio stabile al centro di Roccapizzuta. Il nuovo istituto era posto su di un’altura a strapiombo sul mare ed il giardino, che tutto lo contornava, era adorno di diverse specie di fiori e piante, dove le rose, di ogni varietà e tinta, primeggiavano. Per don Agostino era quello un momento di tregua, dove per un breve tempo poteva staccare la spina dai suoi innumerevoli impegni e lasciare che lo sguardo e la mente spaziassero dalla sottostante scogliera sino all’orizzonte, inebriandosi i polmoni del profumo del mare che sin lì giungeva.
Teresa, giovane novizia tormentata, giunge all’istituto
Qui, era giunta da poco quale postulante una giovane che aveva in animo di donarsi al Signore. Era questo per lei il previsto periodo di tempo destinato alla prova e alla conferma della vocazione, essenziale per il cammino che l’avrebbe portata a far pare dell’ordine religioso, impegnandosi in perpetuo a seguire la volontà del Signore. Teresa, era una ragazza semplice, dai lineamenti delicati e dal viso aggraziato; figlia di contadini siciliani, aveva conseguito il diploma magistrale e, con grande attesa dei genitori, auspicava di darsi all’insegnamento quando improvvisamente avvertì la chiamata. Mai sino a quel momento aveva manifestato una tale predisposizione o volontà, perciò, gli umili genitori non l’avevano presa molto bene, anzi, diremmo proprio per niente, avendo riposto in lei, unica figlia, ogni loro aspettativa. Ma, di fronte a tanta fermezza, a nulla erano serviti le loro opposizioni e i vari tentativi per dissuaderla.
Dopo i primi entusiasmi, era questo, però, uno di quei momenti vacillanti in cui le incertezze incominciavano ad insinuarsi nella sua testa. Il suo animo era in continua lotta con la sua mente. Ciò che ella avvertiva nel cuore, la ragione non lo sosteneva dovutamente. Era certa della fede e dell’amore che nutriva nei riguardi dell’Altissimo, che riteneva fossero intatti ed immutati, era invece cambiata l’assoluta convinzione che il Signore la volesse unicamente per Sé. Pensava alla sua terra, alla vigna che il padre coltivava, alla vendemmia e al mosto che fermentava nei tini per poi farsi vino e si chiedeva quale fosse il valore di quel lavoro, di quella fatica; pensava alla madre che curava l’orto, a quanta dedizione ella poneva nel preparare il terreno, nell’interrare le piantine, preoccupandosi di nutrirle innaffiandole e concimandole nel modo corretto, senza forzatura, e di tenerle al riparo dal sole cocente e dal vento sferzante e si domandava il senso di quella devozione e se agli occhi del Signore ciò non valesse tanto quanto pregare nel chiuso di un istituto religioso. Passato il rigido inverno, guardava la natura risvegliarsi ai primi tepori della primavera ed avvertiva rinascere esplosiva la vita in ogni creatura e si domandava se mai il Signore potesse chiedere ad un uccello di non volare, ad un fiore di non sbocciare, ad un leprotto di non correre e saltare nei prati erbosi, e se il volare, lo sbocciare, il correre e il saltare non fossero il miracolo, la volontà e l’amore di Nostro Signore. Vagheggiava pensieri che mai prima le avevano minimamente sfiorato la mente.
Teresa si era confessata con don Agostino. Gli aveva palesato le sue incertezze, che non erano timori per le difficoltà e le privazioni che tale decisione l’avrebbero condotta, no! Ella non si preoccupava tanto se donare o meno la sua vita, ma se tutto ciò fosse a lei chiesto veramente da Lui. Era questa la ragione del suo tormento.
Don Agostino, vedeva quella giovane lottare caparbiamente con sé stessa nel cercare di capire la scelta che avrebbe dovuto compiere senza commettere errori, e si prodigava per porgerle sostegno. Senza volere influire nella decisione finale, cercava egli d’indagare lui e far ricercare lei, nel più intimo del suo animo, affinché vi potesse scorgere quella volontà assoluta, necessaria per poter fare il passo con convinzione e gioia, ora rivelatosi esitante.
I giorni passavano e Teresa era sempre più in balia di un mare tempestoso, il suo animo era straziato. Il tormento di non trovare una via la prostravano tanto da lasciarla senza energie. Anche il suo fisico ne risentiva, il viso scavato era di un pallore inquietante; le labbra, un tempo rosse come ciliegie, così come i pomi delle guance di un rosa tenue tanto da sembrare pittati, che l’avevano resa tanto attraente agli occhi dei giovanotti che a frotte la corteggiavano, erano un ricordo lontano. Solo gli occhi e le lunghe ciglia sembravano essersi ingranditi, tanto che nell’azzurro dei suoi iridi ci si poteva specchiare. E con lei, soffrivano anche le suore dell’istituto che la ospitavano e don Agostino, che non si dava pace nel vedere quella fanciulla consumarsi, disciogliersi come neve al sole. Era la prima volta che don Agostino si trovava di fronte ad un dilemma simile e l’unico aiuto che poteva darle era quello dell’ascolto e della preghiera.
Don Agostino accusato e coinvolto in una vicenda di loculi
In quei giorni, anche ad Agostino era successo qualcosa che prima l’aveva fatto arrabbiare fortemente e poi provare un sentimento sconfinato di amarezza e di delusione per l’ingratitudine, la meschinità e l’infamia gettategli addosso da alcuni soggetti di una delle confraternite. Il fatto è questo: era morto un parente alla lontana di don Agostino. Il mattino seguente al funerale, quando i familiari del defunto andarono al cimitero a murare le spoglia, con la cassa già posta all’interno del loculo ed il muratore pronto con calce e mattoni, arrivano sul luogo il priore assieme ad altri suoi assistenti intimando di fermare tutto. Questi, fecero presente: primo, che il loculo in questione era stato acquistato a suo tempo da una parente del defunto, e lo aveva fatto per sé medesima; secondo, che il defunto non era neanche iscritto quale confratello alla congrega. Pertanto, sostenevano, il posto non poteva essergli assegnato.
In verità, il loculo era stato acquistato da una zia del defunto. Questa, emigrata con il marito in una cittadina del nord, mantenendo fede alla promessa fatta al congiunto in letto di morte di riportarlo all’amata Roccapizzuta, aveva comprato due posti, uno per lo sposo e uno per sé per quando sarebbe giunta la sua ora. Quando ciò avvenne, però, non avendo figli e trovandosi già da tempo in una casa di riposo, i nipoti diretti che avrebbero dovuto occuparsi della traslazione della salma, non intendendo accollarsi le spese di trasporto, si disinteressarono della cosa, lasciando che la parente venisse inumata nel cimitero di quella cittadina, separando, di fatto, la coppia per l’eternità. Ora, tali nipoti, si presentavano ad esigere il loculo rimasto vuoto, dichiarando di essere i legittimi eredi e rivendicandone il diritto di acquisizione. Essi sostenevano che il loculo era stato pagato e che in altri casi analoghi, si erano sempre sapute trovare le giuste soluzioni. Al massimo, se proprio dovevano, potevano fare una libera offerta alla chiesa e che mai nessuno aveva dovuto rinunziare a un tale diritto. Il priore, a quelle parole, proruppe inveendo contro di questi più risoluto che mai, dicendo che un tale dire e fare derivava solamente dal fatto che erano parenti di don Agostino e che solo perché parenti del religioso pretendevano quei favoritismi, avanzando richieste che non stavano né in cielo e né in terra e che, ad ogni modo, neanche il vescovo in persona gli avrebbe fatto cambiare idea.
Difatti, non ci fu verso. Il morto, lo dovettero trasferire in un altro loculo, un decennale trovato disponibile in un’altra chiesa cimiteriale.
I rappresentanti di quella confraternita, appartenenti a quella sfera ostile a don Agostino e che non vedevano l’ora di rivalersi nei suoi confronti, colsero l’occasione al volo. Così, tutti soddisfatti andarono in giro per il paese buttando veleno a più non posso nei riguardi del povero prete, totalmente allo scuro di quanto accaduto.
Quelle ingiurie, infamanti, vomitate dal priore e dalla sua combriccola, riportate a don Agostino, lo mandarono su tutte le furie, non capendo come siffatte persone si erano potute sporcare così la bocca e macchiare la coscienza, quando, in realtà, egli era completamente estraneo alla vicenda, e loro questo lo sapevano bene.
Nei giorni a seguire, gli strascichi prodotti dall’episodio del cimitero, anziché andare a scemare, inspiegabilmente prendevano sempre maggiore consistenza: quegli individui, ancora non sazi, accusavano don Agostino di essere persona arrogante e prepotente, che si era avvalsa del posto che occupava per fare i propri interessi e quelli dei suoi familiari e che, andando di questo passo, chissà a quali altre prevaricazioni avrebbero dovuto assistere. Così, anche coloro che sino ad allora non avevano avuto il coraggio di palesarsi, quantunque lo pensassero, adesso erano usciti allo scoperto, gettandogli in faccia che, pur se ora vestiva la tonaca da prete, rimaneva sempre il figlio di Nazzareno Strangio, che raccattava ferro vecchio, lercio e pidocchioso, che tutti in paese conoscevano.
La verità, invece, era che i suddetti signori si sentivano mancare la terra sotto i piedi, in quanto don Agostino aveva montato una guardia spietata nei loro confronti e con lui, a differenza del vecchio e malandato don Vito, tanti intrallazzi non li potevano più fare, compresi i locali della parrocchia che utilizzavano come magazzini e che lui aveva fatto liberare per farne l’oratorio per i giovani.
Agostino e Teresa, si compie il disegno
Don Agostino non fu più lo stesso. Quella situazione gli aveva fatto morire il sorriso sulle labbra e, ancor più, nel cuore. Tanto prima era dinamico, tanto ora era divenuto abulico. Solo all’istituto delle suore riusciva a trovare un po’ di pace e concedere al proprio cervello una breve pausa rigenerante, altrimenti in un continuo arrovellarsi nel rimuginare sempre la stessa domanda: “Perché tanta grettezza? Perché tanta grettezza?”.
Uno di questi tormentosi giorni, don Agostino e Teresa si trovavano seduti a parlare su una panchina nel giardino dell’istituto. Ora le parti si erano invertite; adesso era lei a doverlo sostenere e rincuorare e mentre discutevano a don Agostino proruppe una lacrima che gli bagnò la guancia. Teresa, accortasi di ciò, gliela asciugò col dorso della sua mano e poi col palmo lo carezzò teneramente. A quella carezza, don Agostino arrossì, ma non si seppe sottrarre, riprese la mano di lei e accostatasela al viso la tenne stretta stretta e, chiusi gli occhi, si abbandonò a quel contatto, in cerca di un poco di calore. Il colpo basso ricevuto e l’amarezza che l’aveva accompagnato in tutti quei giorni lo avevano fiaccato, le sue difese si erano abbassate. La solidità, sino ad allora avuta in grande abbondanza, tanto da poterla profondere, l’aveva abbandonato e quella carezza, penetrata nel suo animo affranto, lo trovò indifeso come un bimbo. Ora, gettata la corazza con la quale si era cinto, appariva disarmato. Anche Teresa, riconobbe tale cedimento ed avendo fortemente in animo di donargli conforto, di slancio lo baciò sul volto ed insieme piansero, piansero che le loro lacrime sgorgarono copiose e calde, in un pianto per entrambi liberatorio.
- Un sacerdote, che ha preso un solenne voto di castità, deve essere molto attento ai contatti con l’altro sesso, prima che abbiano sviluppi compromettenti. Egli deve rendersi conto che è un comune essere umano e, se non si accorge in tempo dell’esistenza di tali situazioni, per fuggirle, trovandoseli davanti, possono essere troppo potenti per resistere. Non si può e non si deve sfidare il demonio! -
Tutto ciò meditava don Agostino per tutta la notte, chiuso nella sua cameretta. Queste cose le sapeva molto bene, erano state argomento di intense riflessioni in seminario e sino ad allora niente l’aveva scalfito, ora, però, dalla crepa prodotta dalla grettezza e dall’ingratitudine degli esseri umani era penetrato insidioso nel suo cervello l’aspide velenoso che gli stava compromettendo tutta la vita.
Don Agostino uscì presto quel mattino. Qualcuno lo vide dirigersi verso la stazione della ferrovia; dopo, nessuno l’ha più rivisto.
Il giorno a seguire, alla stazione si trovava anche Teresa, con la valigia con la quale era arrivata e dentro le sue poche cose: avrebbe preso il treno che l’avrebbe riportata a quella vita che il Signore non aveva voluto che abbandonasse. Salutando la madre superiora, Teresa le confidò che ora vedeva chiaro, che la sua presenza all’istituto era parte di un progetto divino. E, citando il Vangelo, aggiunse: «Ora sappiamo che tutte le cose cooperano al bene di quelli che amano Dio, i quali sono chiamati secondo il suo disegno».
I soliti maldicenti, ancor non paghi di sputare veleno, malignarono che la cosa era stata ben preparata e che la tresca andava avanti da lungo tempo.
Ma, chissà se poi le cose andarono veramente in questo modo. Taluna gente nei piccoli paesi, sputa sentenze anche per il solo godimento di farlo, compiacendosi del male altrui: abbassare gli altri per elevare sé stessi!
A distanza di tempo, qualcuno riportò la notizia che i due, Agostino e Teresa, spogliatisi degli abiti religiosi, si erano sposati e che avevano avuto dei figli. Si disse anche che entrambi insegnavano nella scuola e che i genitori di lei erano molto contenti di vedersi per casa quei frugoletti, che mettevano tanto disordine ma anche tanta allegria.
E qualcuno, che ancora smerciava loculi e posti al cimitero, ebbe ancora di che sparlare!