Il padre del grande giornalista era di Vibo, dove è seppellito. In diversi scritti il fondatore di Repubblica ha ricordato le sue origini, descrivendo il tramonto della civiltà contadina
Tutti gli articoli di Blog
PHOTO
Aveva vent’anni Eugenio Scalfari, giornalista ed editorialista tra i maggiori nella storia di quel che viene definito il Quarto potere, ma anche scrittore e politico, quando si accorse delle sue origini vibonesi. Non che non sapesse che suo padre, Pietro, fosse nato nell’allora Monteleone, così come suo nonno, dal quale prende il nome e che è stato una figura di rilievo nel quadro culturale in cui è vissuto: docente al Ginnasio, l’attuale Liceo “Morelli”, e anch’egli giornalista e scrittore.
Nato a Civitavecchia nel 1924, Eugenio Scalfari, fondatore nel 1955 della rivista L'Espresso e nel 1976 del quotidiano La Repubblica, di cui è stato direttore per vent’anni, era anche a conoscenza che la sua famiglia in quelle contrade vibonesi fosse proprietaria di «bei terreni, orto, ulivi secolari e un giardino di aranci e bergamotti. Anche filoni di zibibbo e di malvasia dai quali usciva un vino color dell’ambra, forte e profumato».
Si accorse delle sue origini vibonesi allorquando i tedeschi occuparono Roma e, insieme ai genitori, si trovò a dover riparare in Calabria per sfuggire alle «pene della clandestinità e della fame nera».
E, in Calabria, contornato da tanta beltà, a partire dal maggio del 1944, ci rimase per due anni. È egli stesso a raccontarlo nel suo libro, pubblicato 2008, L' uomo che non credeva in Dio, Einaudi Editore.
Ed è qui che a questo suo soggiorno forzato egli dedica un intero capitolo e confessa che prima d’allora in Calabria c’era stato «qualche volta da bambino, l’ultima quando il nonno morì nel ‘32» e lui aveva solo otto anni.
Solo allora scopre luoghi e persone che conosceva dai racconti del padre: «Luoghi e persone, ma avrei dovuto dire sentimenti e usanze, in un ambiente allo stesso tempo familiare ed estraneo cui sentivo di appartenere con una parte di me mentre l’altra negava quell’appartenenza e ne rifiutava i riti e i valori».
«A vent’anni fu molto diverso – continua Scalfari nel suo libro -: mi trovai nel mezzo di una cultura contadina, arcaica, nella quale la mia famiglia paterna affondava radici antiche. Una cultura che stava morendo. Aveva resistito a non so quante invasioni nel corso dei secoli. […] La novità fu che stavano scomparendo i contadini e con essi il loro linguaggio e il loro modo di vivere, impastato di fierezza, ospitalità e coltello, religione e miscredenza.
Quando arrivai nel ’44 quella civiltà era ancora aggrappata ai latifondi, ai poderi […] Ma quando ci tornai cinque anni dopo era già scomparsa. I più giovani erano emigrati, gli adulti facevano i bidelli nelle scuole, i portantini negli ospedali, i commessi tutto-fare e niente-fare negli uffici della Regione e dei Comuni. […] La mafia aveva cominciato a mettere radici nella Locride nei borghi dell’Aspromonte e nella piana di Gioia Tauro. Adesso rivaleggia con Cosa Nostra, e la sua rete d’affari si estende dal Kosovo a Marsiglia e ad Amburgo. Il contadino è una specie in estinzione e non so se meriti d’essere protetta. A questo punto del resto sarebbe impossibile».
In questo capitolo, il quarto, che titola L’innocenza perduta, oltre a denunciare il cambiamento che la Calabria ha subito, Scalfari manifesta tutta la sua sensibilità soffermandosi sulla natura della terra dei suoi progenitori: «Ma i colori, quelli no, non sono cambiati. I colori del Sud hanno una sola dimensione, schiacciati dalla luce e dall’estate, senza sfondo. […] Colore puro, cotto dal sole. […] La natura, sotto la luce del sud, ferma l’attimo e lo rende eterno nella sua silenziosa fissità».
In un articolo su L'Espresso del settembre 2017 ritornerà sulle sue radici calabre nel trattare del padre - morto nel marzo del 1972 e seppellito nella cappella cimiteriale di famiglia a Vibo Valentia - e del libro da questi pubblicato nel 1968 dal titolo I morti vivono, una raccolta di brani letterari su vari autori, critici, riflessioni proprie su scrittori celebri (Leopardi, Carducci, Pascoli) e dedicato alla moglie (sua madre).
LEGGI ANCHE: