Brutta gente i cristiano cattolici integralisti. Che poi in fondo manco sono troppo cristiani e manco cattolici e manco integralisti. Si appioppano alle persone, ai preti soprattutto, immaginando una fede a modo loro. Lo fanno seguendo in fila, come lupi vestiti da pecore, l’uomo della domenica, delle sagre paesane, del “vieni a mangiare a casa mia”. Ecco, se vuoi capire e vedere la cultura reale di un popolo, intervista il prete del paese. E ti risponderà che “questa è una comunità laboriosa”, che “questa è una comunità unita”, che “qui la gente vive in pace con se stessa”. E se poi gli chiedi, caso mai, quanta mafia ci sta nel paese, a quanti mafiosi – scomunicati dal Papa – mette in bocca l’ostia consacrata ad ogni messa e quanta ingerenza la mafia ha nei comitati festa, lui ti dirà che “non è compito mio dividere le persone tra buoni e cattivi perché Gesù è misericordioso” e che “i mafiosi non camminano con il marchio scritto in fronte”. Non si sa mai, specie in paesini di 500 o poco più abitanti, chi siano o non siano le persone.

 

Ed eccoli i preti che piacciono alla gente. Sono in genere quelli accondiscendenti per natura e con il colletto bianco slacciato per scelta; quelli coi jeans e che guardano partite di calcio in tivvù; quelli simpatici, che si fermano nei bar a parlare con la gente e si lasciano pure prendere in giro; quello che la formula magica per durare a lungo nell’ipocrisia tipica dei villaggi della Calabria è “unione”. Unione e silenzio. Basta divertirsi, parlare poco di Vangelo e pochissimo di Gesù Cristo. Perché per ogni calabrese che si rispetti è il santo o la Madonna protettrice del posto a comandare. San Nicola, San Rocco, San Basilio, la Madonna del Carmine, dell’Assunta, di Placanica, quella Nera. E poi le tradizioni parareligiose. Le Affruntate, le Varie, i Vattienti. Appuntamenti in cui il prete non batte ciglio, lascia fare tutto ai comitati, che guarda caso – ed in ogni paese che si rispetta – sono sempre gestiti dai peggio. Peggio non in qualità di mafiosi, ma in qualità di furbastri accattoni. Quelli, per far capire immediatamente di cosa si stia parlando, che girano tutto l’anno a gruppi di 4/5 con le offerte e bussandoti alla porta, alla domanda “chi è”, ti rispondono “la Madonna”. Ecco, per questa gente il prete è solo un mezzo per il quale, un pupazzo manovrato che se mette bocca sgarra, mentre se sta zitto è figo. E se mette bocca e sgarra partono le invettive, le solite nomee, tipo che “è ricchjiuni”, “si teni a una” o “si futti i sordi”. Non prima, ovviamente, di bombardare vescovi e superiori sul suo comportamento ambiguo. Ma se tace e acconsente è un grande prete. “Guai a chi ce lo tocca”.

 

Succede che poi, come nella più logica delle normalità, il vescovo decide di cambiare un prelato da un paese “x” e ne mandi uno nuovo. Alcune scelte la Chiesa non le fa per motivi precisi, ma solo per ribadire un concetto abbastanza chiaro: ai fedeli deve interessare la fede, non chi la professa. E poi fare il prete non è un lavoro e anche se lo fosse i cristiani non sono i dipendenti. Quindi, al di la del ragionevole dispiacere di veder mandato via un uomo comunque affabile e disponibile, che – per dirla alla paesana – “era u mejju”, la protesta non può mai superare i confini della civiltà. Fare il prete è una missione, non una mangiata di salsicce a settimana. E quando la missione in quel luogo “x” finisce o si spegne è sempre bene far ruotare gli uomini e portare in giro per il mondo quanto di buono si è costruito nelle precedenti esperienze.

 

Invece, il più delle volte, si assiste ad una vera e propria caccia alle streghe, anzi ai superiori cattivi che hanno rotto gli equilibri di un’intera popolazione. Inoltre, in tutta questa sceneggiata il soggetto principale non parla mai, non spiega nulla ai fedeli e si trincera dietro un silenzio di comodo, giusto per godersi lo spettacolo.

 

Eccolo il partito dei preti. Uguale uguale alla politica, con tanto di pecore disorganizzate al seguito.