Al piccolo Nicola viene negata sia l'assistenza domiciliare, sia quella scolastica. Nella zona in cui vive, la costa tirrenica cosentina, non ci sono strutture che garantiscano terapie Aba e vive in isolamento per non disturbare i vicini
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È martedì 22 gennaio 2019, in Calabria piove e le nuvole rendono ancora più grigio questo posto dimenticato da Dio e dalle istituzioni. Ho un appuntamento sulla costa tirrenica cosentina con la madre di un bambino autistico, è una donna straniera che ha sposato un italiano, anche suo figlio lo è ma per i burocrati e per certe altri uomini non ha il diritto alla parola, lei che viene dall'est Europa ed è troppo bella per destare compassione.
Mi aspetta in una piazza, la vedo, le faccio cenno di ripartire, la seguo fino a casa. Per dieci minuti vedo davanti a me solo curve e roccia, fino a che arriviamo in un casolare isolato. Dalila, nome di pura fantasia, mi dice che lei, suo marito e il suo bimbo hanno dovuto trasferirsi lì perché i vicini della vecchia abitazione si erano lamentati per le continue urla di suo figlio.
La solitudine di Nicola
Scendiamo dall'auto. Il piccolo, che ha meno di 10 anni, fa due metri, si abbassa i pantaloni e fa la pipì, mentre fuori ci saranno 5, al massimo 6 gradi. Sua madre lo guarda e abbassa la testa, lo sa che anche se lo rimproverasse, Nicola, altro nome di fantasia, non risponderebbe.
Entriamo in casa, ci sono pochissimi mobili, niente quadri, solo due poltroncine. Il salone è una stanza grandissima, ma vuota e triste. Il perché lo scoprirò di lì a poco. Il bambino si dirige verso la penisola della cucina, si arrampica a forza di calci alla piccola parete e, una volta sopra, sale sul frigorifero. Batte i pugni, apre lo scomparto del freezer con la gamba, apre e chiude, apre e chiude, ininterrottamente, per dieci minuti. Poi scende, inscena una sorta di ballo, spinge con forza una terza persona che è lì con noi, sputa, questo sarebbe il suo modo di giocare, ma cade a terra e batte la testa. Nicola non si rende conto del pericolo e non sa neppure piangere. Soffre di una forma di autismo grave, non parla e non sa comunicare. Si tiene la testa con le mani, ci guarda, emette delle urla, si lamenta, ma non piange. Mamma Dalila tiene la testa abbassata, devastata dal dispiacere.
Proviamo a calmarlo ma non ci riusciamo, Nicola sembra non sentirci. Provo rabbia e una frustante sensazione di impotenza. Gli prendo le mani e gli grido in faccia il suo nome, cercando di attirare la sua attenzione. Dio, come è possibile che questo bambino non mi veda e non mi ascolti? Niente, Nicola guarda altrove. Il suo corpo è qui, la sua mente altrove. Questo, mi pare di capire, sia l'autismo.
Dopo l'imbarazzo iniziale, sua madre si siede e comincia a raccontarmi la sua storia, ma non perde mai di vista suo figlio. Mi dice che la casa è vuota per evitare che Nicola si faccia cadere addosso quadri e mobili, le finestre sono sigillate con un fil di ferro e il bagno è costantemente chiuso a chiave, perché una volta suo figlio avrebbe voluto bere del bagnoschiuma. In questa casa la distrazione non è un lusso consentito.
La diagnosi
Dalila è arrivata in Italia con la speranza di una vita felice e in un primo momento si era illusa. Ha conosciuto l'amore e si è sposata, poi ha provato la gioia della maternità, la gioia di stringere al seno quel figlio tanto voluto. Poi è arrivata la scoperta, la diagnosi agghiacciante: autismo in forma grave. Ma cos'è l'autismo e perché arriva? Nessuno sa niente, nemmeno la scienza, che per il momento si è limitata a dirci che è una condizione, non una patologia, che le percentuali di bambini colpiti sono in aumento vertiginoso negli ultimi anni e che dall'autismo non si guarisce.
Nessun aiuto
Dalila si fa forza e va avanti. Ha un momento di respiro quando Nicola cresce ed è a scuola, ma anche qui, ben presto, le cose non andranno nel verso giusto. L'insegnate di sostegno non ha qualifiche particolari e quando non c'è non viene sostituita. Nicola rimane in classe con gli altri bambini, senza tutele, né per sé né per gli altri. Sua madre non può accedere alla scuola e vive in uno stato perenne di agitazione. Allora si reca dal dirigente scolastico per chiedere che venga attivata l'assistenza scolastica educativa, come vorrebbe la legge, ma l'uomo le dice che non ci sono fondi e che deve arrangiarsi. Quindi prova ad andare al Comune, ma il sindaco non la riceve e al suo passaggio sente i dipendenti comunali lamentarsi della sua presenza: «È straniera, che va trovando?».
Niente metodo Aba e assistenza domiciliare
In Calabria se non sei in periodo di campagna elettorale e se non hai un parente importante entro il terzo grado di parentela, non sei nessuno. Così, la donna scopre che non avrà mai l'assistenza domiciliare e sarà costretta, notte e giorno, a badare da sola a quel bambino indomabile, a cui non sentirà mai pronunciare la parola "mamma". Scoprirà ben presto che non potrà neppure tentare di ridurne i comportamenti disfunzionali, perché in zona non ci sono strutture che seguono i bambini autistici, men che meno presidi sanitari che garantiscano le terapie Aba (analisi applicata del comportamento).
Nicola c'è, ma per la Calabria non esiste. Per lui e per quelli come lui non ci sono fondi a disposizione, non ci sono progetti particolari e non ci sono aiuti, né dalla scuola, né dalla società, né dalle istituzioni. Nessuno mai ne parla. Il destino di queste persone è nascere e morire nell'indifferenza, possibilmente isolati per evitare che diano fastidio a qualcuno.
Il dolore di una madre
Con sua madre proviamo a fare una breve intervista, ma per mettere insieme due minuti di registrazione abbiamo combattuto quasi un'ora. Alla fine ci arrendiamo, siamo stremate dall'ansia e dalla paura che al piccolo possa accadere qualcosa mentre scambiamo qualche parola. Raccolgo gli strumenti e l'abbraccio. Dalila è fredda, distante, provata, sofferente. Sembra non sentire più le emozioni. Ringrazia ma non ci crede più crede più le cose possano cambiare. Ha voluto raccontarmi il suo dolore per non avere rimpianti, dice, ma ogni giorno si alza dal suo letto per forza di inerzia, la sua voglia di vivere l'ha lasciata nei meandri della burocrazia calabrese, tra il pregiudizio e l'indifferenza di una terra bella quanto amara. Con la consapevolezza che di madri come lei ce ne sono a centinaia, forse migliaia e hanno perso anche la voglia di chiedere aiuto.