«C’era un ragazzo davanti a me. C’era confusione, stava arrivando la Polizia. Lui venne raggiunto alla nuca da un fumogeno lanciato a caso nell’aria, poteva colpire chiunque, anche me. Cadde per terra, all’istante. Vidi per un attimo uscire dalla sua bocca il sangue a fiotti ma c’era fumo e confusione e stavano caricando. Ci arrivò addosso una pattuglia, erano tanti. Ci infilammo in una traversa e continuammo a correre. Così, sempre così, correvamo e correvamo e tutta la città era assediata e quando si diffuse la notizia che era morto un manifestante fui convinto che fosse lui, ero certo fosse lui, quel ragazzo, invece era Giuliani. Come sia possibile che Genova provocò una sola vittima è un miracolo. Certo, tutto fu archiviato in fretta, e ancora oggi non c’è una verità ufficiale. Ognuno di noi in quei giorni assistette a scene di indicibile violenza, ognuno di noi fu testimone di un potenziale omicidio».

La persistenza della memoria

Antonino Campennì, è un ricercatore dell’Università della Calabria, sociologo dell’ambiente. All’epoca aveva trentasei anni. Partì al seguito dei Cobas perché il mondo era tutto lì. Vent’anni dopo non sogna più Genova.

«All’inizio forse, i primi giorni, in seguito no, niente più incubi. Certo, i ricordi ci sono, stazionano in fondo, e anche vedere delle immagini in televisione quando tu sei stato lì e hai visto con i tuoi occhi quello che è accaduto, fa male. Poi è arrivato il processo, le manipolazioni su quello che avvenne. Ma ne dobbiamo parlare e continuare a farlo e mostrare anche le immagini più forti che rivoltano lo stomaco, perché Genova è stata anche quello, il sangue, e dobbiamo farlo vedere a chi nel 2001 non era neanche nato, perché capisca».

Genova, vent’anni fa, vent’anni che sono tanti, una vita, si dice così quando si parla di un laccio temporale che cattura un nucleo denso di avvenimenti che bastano e avanzano a un’esistenza sola. Genova, invece, non basta a contenerne una. Ne contiene migliaia e migliaia, tanti erano i manifestanti raccolti in quel pugno di chilometri.

Sole e tempesta

Genova che fu l’estate del sole e poi del temporale, dei cortei, dei forum di discussione, dei cartelli dipinti sul marciapiede, della gente di ogni età in calzoncini e borsello o dreadlock e zainetto, dei curiosi alle finestre che salutavano e srotolavano striscioni in giù e poi dell’odore metallico del sangue, delle urla strappate nei vicoli, delle saracinesche giù di colpo col clangore dei lucchetti ammaccati dal cemento, dei pugni contro il ferro, delle teste spaccate sull’asfalto, delle mani rotte a proteggere le costole frantumate.

Genova è difficile, non è un pranzo di gala, è una spada inghiottita tutta intera. «Si trasformò in un incubo quello che era iniziato come un momento di incontro, di discussione, di manifestazioni pacifiche – racconta Campennì -. C’era stata qualche avvisaglia, certo. Ricordo una nave arrivata dalla Grecia e attraccata al porto che fu circondata dalla Polizia. Ci furono scontri lì, perché le forze dell’ordine non volevano farli sbarcare. Ma ancora, in quel momento, più forte di tutto era il senso di partecipazione diffusa, di comunione, di scambio di idee». Tutto cambiò e anche piuttosto in fretta.

«I veri eventi di inaudita violenza vennero rapidamente rimossi, ancora oggi non vedo tante ricostruzioni che riportano le cose orrende accadute vent’anni fa. I black bloc furono una componente che non può giustificare la massiccia e indiscriminata violenza delle forze dell’ordine, da vero controllo militare della città. Le botte le presero i pacifisti, i non violenti. E poi ci fu un seguito, quando le piazze s’erano già svuotate e i manifestanti sistemati per la notte, con il massacro della Diaz che si provò a mascherare, per non parlare delle torture nel carcere di Bolzaneto».

Cosenza nel ciclone

A processo ci finì anche Campennì, quando Cosenza venne identificata come il centro rivoluzionario degli scontri. «Si trattò di un’indagine precostituita, cosa che uscì anche durante il dibattimento, che fece il giro delle Procure alla ricerca di qualcuna che la sposasse: Genova disse no, Napoli disse no, Cosenza disse sì, ed ecco che i capi della rivolta vennero individuati in questa città».

Fabio Gambino aveva trent’anni, era uno studente dell’Unical quando s’infilò nel pullman di Rifondazione Comunista e partì con la sua fidanzata, oggi moglie, per Genova. «Quando arrivammo alle porte della città ci raggiunse la notizia della morte di Carlo Giuliani. Ci gelò – racconta – e non facevamo che ricevere le telefonate dei nostri genitori che ci pregavano di tornare a casa. Gli mentimmo, dicendo che avevamo deciso di fermarci prima, per farli stare tranquilli. Qualcuno, però, tornò davvero indietro, scese in un’area di servizio e prese un passaggio per Cosenza, noialtri eravamo piuttosto preoccupati ma non volevamo rinunciare alla manifestazione».

Limone e vaniglia

Così il suo bus rosso entrò nella città assediata. «Ricordo i limoni attaccati con i fili di nylon agli alberi. Berlusconi li aveva voluti, per dare un tocco di colore, e si arrabbiò moltissimo per i panni stesi sui balconi. Assurdo a ripensarci. In televisione non facevano che parlare dei profumi preferiti dai rappresentanti dei vari Stati ospiti, per strade scorreva il sangue e loro pensavano al bagnoschiuma alla vaniglia».

Arrivò al corteo, 300mila persone sotto il sole che camminavano in modo pacifico, ma dopo un po’ la folla cominciò a correre spaccandosi in vari rivoli. «La sensazione brutta era di sapere di non avere una via d’uscita: da una parte c’era la polizia, dall’altra i black bloc che spaccavano tutto. Volevamo andarcene, ma ogni strada era bloccata. Ci sentivamo topi in trappola. Con noi c’era anche Damiano Guagliardi, che era consigliere regionale, ecco, ricordo che durante la fuga, ci trovammo la polizia davanti alla traversa che stavamo imboccando per scappare, lui alzò le mani e disse ai poliziotti: “Fatemi passare, sono un consigliere regionale della Calabria”, lo tirammo via immediatamente».