Nella macchina che da giorni è parcheggiata ai piedi del Gianicolo c’è Gianluca. È febbraio. La macchina è diventata la sua casa, perché gli alberghi a Roma sono costosi e lui deve restare lì, davanti all’Ospedale Bambino Gesù, dove suo figlio è stato portato d’urgenza, di notte, quando un medico che conosce, calabrese emigrato a Roma, gli ha detto «prendi immediatamente il bambino e portalo qui». Da Guardavalle Marina, in provincia di Catanzaro, a Roma sono 670 chilometri.

Perché Roberto (nome di fantasia), che ha tre anni, non aveva l’influenza, come li ha rassicurati il medico di base, che gli ha detto che poteva anche smettere di prendere l’antibiotico perché ormai era passata. Roberto ha un tumore di Wilms al III stadio.

«Non si sono accorti che c’era un valore completamente sballato, se non avessi fatto vedere le analisi ad un altro medico non lo avremmo mai scoperto, non lo avremmo mai preso in tempo. Mio figlio sarebbe morto» racconta Gianluca. Ma ora serve una Tac con contrasto sotto anestesia totale e in Calabria non si può fare. «Ci hanno detto che potevamo andare solo a Roma o addirittura a Genova, al Gaslini». Per fare una Tac il posto più vicino a Guardavalle Marina è Roma. Il bambino non può essere operato prima di un ciclo di chemioterapia di un mese. Mamma Concetta resta sempre accanto a lui in ospedale, papà Gianluca può entrare solo una volta giorno. Roberto è solo 1 dei 10.000 bambini che ogni anno arrivano dalla Calabria al Bambino Gesù di Roma.

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È solo un numero dell’esodo che ogni anno si mette in marcia per curarsi fuori dalla regione perché le liste di attesa sono troppo lunghe, perché non ci sono le attrezzature, perché gli ospedali chiudono, perché non c’è il personale medico. Una diaspora dolorosa e costosa, per le famiglie e per le casse delle Regioni. Perché la mobilità sanitaria si paga e anche a caro prezzo. Negli ultimi dieci anni, come stima la Corte dei Conti, 14,9 miliardi di euro sono finiti nelle casse delle Regioni del Nord pagati da quelle del Sud, Campania e Calabria ai primi posti. La metà va in mano ai privati.

I viaggi della speranza sono un giro d’affari immenso, la Lombardia in dieci anni ha incassato più di 6 miliardi di euro, l’Emilia Romagna, seconda destinazione preferita, 3,347 miliardi di euro. Quando si ammala qualcuno, si ammala una famiglia. E il calvario ha più di una faccia.

Per qualche giorno Gianluca è ospite di un parente fuori Roma, parte ogni mattina alle 4 e resta nel parcheggio del Bambino Gesù fino alle 22, quando riparte e va a dormire. Per ricominciare tutto dopo qualche ora. Una Via Crucis doppia, quella di una famiglia che affronta un percorso di guarigione difficile e pieno di dolore e quella fisica, reale, attraverso l’Italia, per portare la propria croce dalla Calabria a Roma, da soli, lontani dalla famiglia e senza un posto dove stare.

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Gianluca è un operaio, lavora nella grande distribuzione. Concetta non lavora. Eppure, nel Mezzogiorno della disoccupazione e del lavoro nero si considerano fortunati, perché Gianluca ha un contratto a tempo indeterminato, ha potuto prendere ferie e congedi. Non va a lavorare da febbraio e non ci potrà tornare per i prossimi sei mesi, perché dopo l’intervento ci sono le radioterapie e poi le chemioterapie.

Avevano dei risparmi, ma sono andati in fumo per il parcheggio dell’auto, per mangiare, per i tamponi che servono per entrare in ospedale, un giorno sì e un giorno no. E anche per i continui viaggi in Calabria, dove Gianluca va per fare i documenti, perché servono tutti gli incartamenti per fare domanda per la pensione e la 104, ma il patronato non riesce a mandarli a Roma per via telematica per più di un mese. Continuano ad inviarli via mail anche se non è quella la procedura giusta. All’Inps ormai lo conoscono, Gianluca ci va tutti i giorni. «Tu sei il papà di Roberto» lo salutano gli impiegati.

La migrazione sanitaria la pagano tutti, le famiglie che rinunciano a tutto pur di curarsi e le Regioni. I numeri di Agenas, l’Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali, sono spaventosi. Le prestazioni e i ricoveri in trasferta sono costati alla Calabria, solo nel 2021, 159,5 milioni di euro di rimborsi ad altri Sistemi Sanitari Regionali. Nel 2020 erano stati addirittura 240.

«Ho speso 600 euro solo per i tamponi, se non trovo un parcheggio di fortuna devo pagarlo e costa 10 euro al giorno, quello del Gemelli, dove andiamo a fare dei consulti, costa 12 euro per due ore. E siamo qui da due mesi. Solo per andare in Calabria e poi tornare a Roma ci vogliono 300 euro. Penso che abbiamo speso circa 4.000 euro fino ad oggi. E dobbiamo stare qui fino alla fine di ottobre, quando Roberto finirà le terapie. Naturalmente abbiamo anche le spese di giù, la rata del mutuo, della macchina e le bollette. Ci aiutano i nonni con la loro pensione, ma neanche loro navigano nell’oro. Con il mio stipendio non ce la potremmo fare».

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Alle famiglie pensa solo il mondo del non profit, con la rete delle case di accoglienza messa in piedi dalle organizzazioni di volontariato, che però riesce ad accogliere poco più del 10% di pazienti e familiari.

La salvezza di Gianluca, Concetta e Roberto si chiama Peter Pan, associazione che dal 2000 ha aperto tre case vicine al Bambino Gesù, dove oggi loro vivono in una camera con bagno e condividono spazi comuni, laboratori ed attività con le altre famiglie.  Gli ospiti di Peter Pan vengono da 11 diverse regioni italiane, in particolare da Calabria, Campania e Puglia. Ma i più numerosi sono i calabresi, che nel 2021 sono stati il 32%.

«Roberto ora è magro e ha perso un po’ di capelli, è nervoso, ma almeno sappiamo che il male al pancino, come lo chiama lui, non c’è più» dice papà Gianluca «Non so cosa avremmo fatto senza il sostegno di Peter Pan. Noi qui siamo soli, non abbiamo il sostegno della nostra famiglia».

Il loro pensiero, e quello di Roberto, è al futuro: «Lui ci chiede in continuazione perché non siamo rimasti a casa nostra, vuole andare a giocare, vuole tornare a fare il bagno in mare».