Scorrono sullo schermo le immagini dei funerali di Stato. Immagini in Vhs, con le righe della polvere impresse sul nastro. Una scena su tutte: una giovane moglie scuote la testa. Vuole perdonare, ma la voce si rompe nel pianto. Le hanno ammazzato il marito, l'agente Vito Schifani. Il prete la incoraggia, lei piange, si dispera. Lo dice che "loro non si inginocchiano". 

Per chi quel giorno era già grande, quelle immagini sono un pezzo di vita, per i più giovani, invece, sono momenti che appartengono al cassetto delle cose accadute nel passato a loro estraneo, così remoto che se non ci fosse qualcuno a raccontarlo, sembrerebbe mai esistito. Per fortuna c’è chi non perde il vizio di ricordare e far ricordare. Così quegli eventi di più di un trentennio fa, riescono ad annodarsi alle coscienze dei giovanissimi, nativi digitali, generazione Tk, come Tik Tok, che forse saranno migliori di chi li ha preceduti.

Quando la mafia uccideva solo d'estate

Correva l’anno 1992. Era quasi estate. In un istante un suono forte come una scarica di tuoni, non solo spezza le vite di Giovanni Falcone e di sua moglie Francesca Morvillo, ma anche dei tre uomini della scorta: Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Avevano scelto un mestiere complicato in un periodo complicato, in un luogo complicato. A casa li aspettavano mogli e figli. Ma quel 21 maggio diventerà una rincorsa all'ultima telefonata, l'ultimo bacio sulla porta.

Un lungo applauso ha accompagnato oggi la visione del documentario Rai “I ragazzi delle scorte” proiettato all’auditorium Guarasci di Cosenza davanti a centinaia di studenti, nell’atteso evento organizzato per le scuole dall’associazione “Musica contro le mafie” e inserito all’interno del cartellone di Music For Change. Sul palco Tina Montinaro, moglie del caposcorta di Falcone, Antonio Montinaro, e Pif regista, autore e attivista.

Oltre il lutto, la memoria ha la capacità di superare il dolore, allungarsi a dismisura, diventare spessa, calda come una sciarpa che avvolge i pensieri scuri e li trasforma in qualcos’altro. Così è stato per Tina Montinaro, che non vuole definirsi vedova, ma moglie di Antonino Montinaro «perché io continuo a pensare a lui, a dedicarmi a lui, lui per me c’è sempre». Così riesce anche a sorridere tutte le volte che con l’auto passa, e le capita di frequente, in quel tratto di strada che ha inghiottito l’amore della sua vita. «Lo vedo lì, fermo, che mi aspetta».

Pif, palermitano, autore del pluripremiato film “La mafia uccide solo d’estate” e protagonista di tantissime iniziative sulla legalità, lo dice chiaramente ai nostri microfoni: «Ai ragazzi dico sempre che dobbiamo mettere in atto il cambiamento subito, o non serviranno incontri e discussioni».

Pif, lei una volta ha detto: “Bisognerebbe cambiare modo di raccontare la mafia perché siamo cambiati noi ed è cambiata lei”. Come la spieghiamo ai giovanissimi?

«Il punto è convincere i ragazzi che la mafia e la ‘ndrangheta sono un problema che li riguarda da vicino. Quando hai quindici anni, in un Paese normale, non pensi alle organizzazioni criminali, ma qui dobbiamo farlo. Non c’è più la mafia di una volta, e certo non lo dico con nostalgia. Il mafioso latitante col panino in mano è un'immagine vetusta, passata. Lo stesso Matteo Messina Denaro ha dato l’esempio di come la malavita organizzata abbia cambiato pelle. Bisogna far capire ai ragazzi che anche se la mafia non uccide come prima, questo non vuol dire che non sia più un problema. Non è un capitolo chiuso, insomma».

Secondo lei è giusto demonizzare film o serie da alcuni accusati di dare un’immagine troppo seducente dei mafiosi? Alcuni sono dei capolavori mondiali, penso al “Padrino”.

«Dico subito che darei un braccio per partecipare a un film come “Il Padrino” di Coppola, però è un’opera che si basa su un grande equivoco. Il regista ha rappresentato una mafia americana molto più "spettacolare" di quella reale, ma il mondo ha frainteso, credendo che la mafia fosse cool come quella là che ci mostrava lui. Il problema è che il regista l’ha fatto così bene il film, che ha fatto appassionare anche la mafia siciliana che ha cominciato a usare espressioni che non aveva mai utilizzato. Quando entrarono a casa di Bagarella, le forze dell'ordine scoprirono che nel filmino del matrimonio lui aveva chiesto che fosse suonata la colonna sonora del Padrino. Ecco, io penso che la cosa è grave quando una finzione racconta qualcosa di sbagliato, o che non è reale. Tu sei qui, affronti le scuole, poi arriva un film e ti fa tornare cinque passi indietro».

Ha espresso stima nei confronti dell’Antimafia calabrese, cosa le piace del suo modus operandi?

«Ogni volta che vedo le realtà antimafia della Calabria le trovo molto concrete, a differenza di quelle siciliane che tendono a implodere. Magari ci saranno anche qui discussioni e litigi, ma ci sono progetti come il Goel, che conosco di più, che mi incantano e puntano a un obiettivo vero, solido. Penso che il calabrese sia bello tosto, sia nel male che nel bene, e confido che saprete risollevarvi».

È molto ottimista.

«Il mio è un ottimismo che si basa su un'esperienza personale. Io arrivo da Palermo, una città che sembrava resistente a ogni cambiamento fino a qualche anno fa e che invece è riuscita a fare uno scatto in avanti. Adesso si può girare un film lì senza pagare il pizzo, si può aprire un’attività senza pagare il pizzo. Se è cambiata Palermo, perché non deve cambiare la Calabria?».

È una corsa la nostra che parte dalle retrovie.

«Sa qual è la verità? La verità è che per anni la Calabria è stata abbandonata a sé stessa. Questo è accaduto un po’ per tutto il Sud, ma per la Calabria in particolar modo. Infatti mi capita spesso, quando incontro ministri o altra gente importante, di dire: “Ehi, ricordatevi della Calabria!” e lo dico da siciliano».

Cosa ci può salvare: un eroe, la cultura, un evento eccezionale? Cosa? Chi?

«Nessuno, noi ci possiamo salvare da soli. Palermo è cambiata perché è cambiata la narrazione di chi la vive e ha voluto mutare rotta. Non è il Paradiso certo, ma si sta meglio».

Parlare, confrontarsi, ricordare, sono la goccia su una roccia che prima o poi si creperà?

«La cultura è il punto su cui battere per avere una trasformazione del tessuto sociale. Le forze dell’ordine possono fare il loro, ma se non cambia la mentalità di tutti sarà inutile. Mi ricordo un’intercettazione a un mafioso siciliano che si era arrabbiato perché la figlia di una sua amica voleva andare a una manifestazione in ricordo di Giovanni Falcone. Questa è la prova che questi incontri, come quelli di oggi, non fanno perdere tempo. Anzi aiutano il cambiamento».