Nel piccolo centro vibonese sorgono ben tre case vinicole, figlie di una vocazione radicata nel tempo. Un convegno promosso dall’associazione Enotria esalta la peculiarità del territorio ma ora servono scelte mirate per fare dell’enoturismo un fattore di crescita economica e sociale
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Le radici, la tradizione, la storia economica e sociale di un territorio. Quanto basta per definirne un tratto identitario che lo rappresenta all’esterno e attorno al quale la comunità si riconosce. Lo è il vino per Brattirò, frazione di Drapia, nel Vibonese. Un nucleo di case assediato da uliveti e (naturalmente) vigne che guardano dall’alto la rocca di Tropea, in una campagna feconda che dal mare degli Dei trae anima e sostanza.
Qui, come in pochi altri posti nella provincia vibonese, si è sviluppata la viticoltura che per un lungo periodo è stata la principale attività economica locale. Fu possibile, soprattutto, grazie ad una particolare varietà di uva da tavola autoctona, l’olivetta, che si allevava con impianti a tendone per poi essere commercializzata in tutto il circondario e non solo. Da quelle pergole i contadini traevano sostentamento e anche un certo benessere: mandavano i figli a scuola e all’università, permettevano alle rispettive famiglie di elevare il proprio status. Ma la medaglia di quell’emancipazione economica celava un risvolto che portava inesorabilmente allo spopolamento e all’abbandono delle campagne. L’identità contadina tuttavia, dura a morire, provvidenzialmente non è andata interamente dispersa.
“Una storia da sviluppare”
È attorno a questi temi, alla storia della viticoltura locale passata e a quella ancora da scrivere, che si è incentrato il convegno “Vino e tradizione, una storia da sviluppare”, organizzato proprio a Brattirò dall’associazione culturale Enotria, in collaborazione con le case vinicole del territorio, le associazioni Le Tarme e Aicem Calabria, il patrocinio del Comune e il contributo della Regione Calabria.
Un’occasione di riflessione, tra storia, cultura e prospettive economico-sociali legate alla produzione vinicola, che ha visto il qualificato contributo di esperti del settore, storici, produttori in prima linea. Tre le cantine presenti sul territorio comunale: Marchisa di Renato Marvasi (che è anche presidente dell’Associazione viticoltori vibonesi), Rombolà di Alfonso Rombolà e Masicei di Cosmo Rombolà. Realtà produttive piccole ma ben radicate che fanno di Brattirò il fulcro del circoscritto ma interessante mondo del vino vibonese.
L’obiettivo della Doc “Costa degli Dei”
Comparto che attende con trepidazione i frutti del lavoro che proprio i vignaioli associati, titolari di sette cantine della provincia, stanno portando avanti insieme al Gal Terre vibonesi per ottenere la Doc “Costa degli Dei” sui vini prodotti da uve zibibbo e magliocco canino. Vale a dire i vitigni storicamente legati al territorio di riferimento.
Ben tre delle sette aziende associate, come detto, sono basate a Brattirò. È qui che, riprendendo il racconto in premessa, la coltivazione dell’uva da vino, una volta accantonata quasi del tutto l’olivetta vibonese, ha preso piede grazie a tanti micro-produttori che, negli anni ‘80 del secolo scorso, hanno dato vita anche a cooperative di produzione. Quelle esperienze contenevano in embrione le realtà più strutturate che sarebbero sorte negli anni a venire grazie a vignaioli caparbi e dalle idee chiare: su tutti Alfonso Rombolà, papà del pluripremiato marchio Trupìa. Un po’ di merito, a giusta ragione, se lo prende anche Pasquale Costa, presidente dell’associazione Enotria che da ben 40 anni promuove la Sagra del vino e svolge un encomiabile lavoro di promozione oltre che di produzione grazie al “vino che non c’è”: realizzato dagli stessi soci esclusivamente per “irrorare” l’annuale sagra.
«Creare una comunità resiliente grazie al vino»
Nel convegno, moderato dal docente e giornalista Nicola Rombolà e aperto dal sindaco di Drapia Alessandro Porcelli, sono risuonate come musica per le orecchie dei presenti le parole dell’agronomo Pasquale De Francesco, l’esperto che sta accompagnando l’iter della Doc “Costa degli Dei” dal punto di vista scientifico. Ma i suoi spunti sono stati tutt’altro che tecnici. «La denominazione di qualità - ha detto - è un marchio non solo per un prodotto ma per un intero territorio in cui la collettività ha espresso un suo modo di coltivare, produrre, applicare i propri saperi. La denominazione appartiene di conseguenza alla comunità locale, quindi ad una componente umana che a sua volta crea capitale sociale, relazioni, fiducia, regole condivise. Va da sé che agricoltori e comunità sono azionisti del territorio e si devono impegnare a tutelare, valorizzare, difendere il paesaggio. È, nei fatti, un progetto di sviluppo locale che diventa momento di condivisione, esempio per ulteriori reti e che rende il territorio resiliente. Se lo spazio rurale non dà valore aggiunto, questo si spopola. Portare valore aggiunto all'agricoltura (e la Doc lo è) è un’occasione per rendere la comunità resiliente».
Storia, esperienze e volontà di fare rete
Un approccio storico, dall’antica Grecia alla Roma dei Cesari fino a tempi più recenti, è stato offerto dal docente universitario Antonio Pugliese, in un interessante excursus dagli usi e i costumi legati al vino fino alle sue proprietà terapeutiche. Significative le testimonianze dei produttori e le loro esortazioni. «Se non ragioniamo per il bene comune - ha detto Alfonso Rombolà - non sarà possibile realizzare nulla. Io sono tornato qui, dal 2004, con l’obiettivo di creare un gran vino. E credo di esserci riuscito visto che oggi le nostre bottiglie sono apprezzate in Italia e anche negli Stati Uniti. Nonostante le esperienze negative del passato, sono ancora disposto a scommettere nella collaborazione tra produttori per dar vita ad una grande cooperativa».
Emblematica la storia di Renato Marvasi: nato e cresciuto a Roma, ha scelto realizzare qui la sua impresa investendo sui terreni di famiglia. «La comunità mi ha aiutato e accettato - ha detto con orgoglio -. Oggi c’è uno spirito nuovo grazie all’unione di sette cantine accomunate dall’obiettivo di promuovere il territorio della Costa degli Dei e i suoi vitigni che hanno una storicità e anche un’identità: perché il vino è tradizione, storia, arte, cultura di un territorio».
Ora, però, Brattirò entri nel circuito delle Città del vino
«Brattirò città del vino» ha chiosato, infine, soddisfatto, il sindaco Alessandro Porcelli sintetizzando le sensazioni emerse dal confronto. Ecco, riprendendo la sua felice battuta, ad avviso di chi scrive è da considerare con attenzione (qualora non lo si sia ancora fatto) l’idea di iscrivere Drapia nel novero degli aderenti alla rete dell’Associazione nazionale Città del vino. In Calabria sono associati appena 16 Comuni (tra questi Cirò, Melissa, Saracena, ecc.). Drapia ancora no. Per aderire basta una delibera di Consiglio comunale e una quota discrezionale. Se si crede veramente al potenziale enoturistico del territorio, si dimostri che questo non è solo materia di convegnistica bensì un obiettivo da perseguire attraverso scelte consapevoli e segnali concreti. A trarne benefici sarebbe l’intera comunità.