Entrambe si sono rilevate due traiettorie che marcano un po’ di più la strada del cristallizzarsi dell’identità critica individuale
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Il privilegio dell’arte risiede nel poter essere finanche oscena, catartica, conturbante. Di sicuro, la rappresentazione del darsi del presente può spiazzare, far discutere e può perfino generare inquietudine in chi usufruisce di una specifica produzione artistica.
Per quanto affermato, lo spettro d’azione è tanto ampio al punto che diventa imprescindibile, per chi produce, cercare un qualcosa che possa dirsi davvero “suo”, trovare una propria cifra stilistica.
Una siffatta ampiezza in cui poter spaziare (e innovare) è dettata dal fatto che l’arte, per dirla con Aristotele, in quanto prodotto umano, è segno tangibile della socialità. Di più: per l’uomo è uno fra i riflessi più nitidi del suo essere costitutivamente «animale politico».
Eppure, si badi bene: nell’intrecciare il discorso artistico alla politica, almeno in questo contesto, non si vuole lasciare intendere che ci sia sempre la necessità di sbandierare un qualcosa tramite il proprio prodotto. Ancor di più: non si vuole affatto affermare che ci sia bisogno di una sorta di canone, di un “Manifesto” a cui attenersi quando si ha in mente di generare un qualcosa. Infine, non è neppure il caso di asserire che non esistano oggigiorno artisti militanti. Parlando di “politica”, si vuole intendere, richiamando l’etimologia del termine, che nell’agire artistico si affronta e si discute inevitabilmente quanto “attiene alla polis”.
Tenuto conto di questo elemento, sembrerebbe logico parlare di discrepanze di vedute e di conseguenti analisi, dibattiti e polemiche sorti a partire dall’aver preso determinate posizioni tramite, per esempio, un film, un dipinto o una canzone.
Ancora, considerato il riverbero generato dalle azioni nell’epoca attuale – dominata dall’istante e dal commento immediato dello stesso – sembra naturale che un artista voglia incarnare quelle sue sopraccitate visioni, quella sua unicità attraverso i propri gesti, tramite la sua voce, le sue movenze, il suo corpo.
Eppure, le ultime edizioni del festival di Sanremo e della notte degli Oscar hanno mostrato come questi approcci dissidenti siano stati accantonati, se non del tutto esclusi dalle rinomate kermesse. Tutt’al più, laddove strettamente necessari, sono stati diluiti, serviti a piccole dosi ben calibrate. Da qui, le posizioni espresse, laddove manifestate, sono apparse davvero poco pungenti.
Di sicuro, l’identità individuale – di cui la creazione artistica è riflesso – è stata inglobata in un universo televisivo, in un format che è risultato essere una bolla, un’isola felice ben distante dalla realtà.
Focalizzando l’attenzione sul Festival di Sanremo, si può riferire che si è assistito a un evento stinto, dominato da una sobrietà di fondo che reclamava equilibro e che mirava a generare rassicurazione. Quest’andamento, di tanto in tanto, è stato smosso solo da una flebile comicità, ma il tutto – con sparuti inframmezzi come quello di Benigni o, per fare un altro esempio, come l’esibizione di Noa e Mira Awad – ha contribuito a conformare una rassegna piatta e, forse proprio per tale ragione, adatta davvero a chiunque.
Dunque, la musica, sorretta da un agire siffatto, diventa sempre più intrattenimento, merce, “canzonetta”, corollario per un commento social, mezzo tramite cui evadere serenamente dalle turbolenze del quotidiano: nulla più. Tutto il resto viene tenuto fuori, al di là dal teatro (o, per dirla meglio, ai margini degli schermi e delle orecchie).
Poco male, si potrebbe obiettare: il singolo, interessato, può rifiutare un prodotto e compiere facilmente una sua specifica ricerca (musicale, in questo caso) anche al di fuori dai palcoscenici rinomati e dalle reti televisive più ambite. Certo, eppure, non si può sottovalutare l’incidenza di un programma che ha tenuto incollati gli italiani ai televisori per una settimana generando ascolti mai avuti prima.
Così, è pur vero che questi risultati debbano rappresentare almeno in parte lo specchio del tempo attuale. Quanto detto viene avvalorato dal gettare uno sguardo anche sulla Settima arte. In dettaglio, si può far cenno alla rinomata cerimonia degli Oscar, che era attesa più del solito a causa del rinvio dovuto agli incendi di Los Angeles e che risentiva ancora del forte eco di quanto accaduto nello Studio Ovale, laddove, com’è noto, si è assistito allo scontro fra Trump e Zelensky.
Si aggiunga a questo che, il Dolby Theatre, così come il palco dell’Ariston, è sempre stato un luogo capace di concepire le più disparate polemiche. Insomma, il contesto e gli eventi avevano alimentato una certa attesa anche relativa a determinate prese di posizione.
Certo, entrando più a fondo nell’ultima edizione della cerimonia, per esempio, Guy Pearce ha sfoggiato una spilla avente impressa la scritta Free Palestine e l’oscar per il miglior documentario è andato a No Other Land, così come Adrien Brody si è soffermato sulla drammaticità della guerra e sul tema dell’inclusione. Eppure, nel complesso, così come accaduto per il Festival di Sanremo, è rimasta anche qui ben impressa la sobrietà di fondo che ha dominato la scena.
Entrambe, in definitiva, si sono rilevate due traiettorie che marcano un po’ di più la strada del cristallizzarsi dell’identità critica individuale. Di sicuro, occorre tenere in mente che l’incamminarsi verso il cicaleggiare incessante di un unico verso, di una sola sfumatura, porta l’arte a divenire innocuo sottofondo, accessorio di un momento specifico, mero intrattenimento. Da qui, si perde la sua ampiezza e l’arte diventa soltanto “arte passiva” smarrendo quel suo privilegio (il poter essere finanche oscena, catartica, conturbante; il poter far discutere e generare inquietudine) di cui si accennava in apertura.