Visitabile fino al 13 aprile, la mostra Pop art Revolution getta una luce anche sulla sfera più intima di uno degli artisti più emblematici del Novecento
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Se ci si sofferma sui modi di percepire il concetto di arte e se, ancor più, si focalizza l’attenzione sul Novecento, è inevitabile fare i conti con una delle figure indiscutibilmente più emblematiche e rivoluzionarie del Secolo breve: Andy Warhol.
La sua capacità di rendere iconici gli oggetti quotidiani non ha pari; la sua volontà di mettere in luce (e criticare) la superficialità che traspariva dal consumismo americano a lui coevo era finanche precorritrice dei tempi. Del resto, giusto per parafrasare la sua espressione più celebre, la fama di cui chiunque, a suo dire, nel futuro avrebbe goduto per almeno quindici minuti, appare tinta di un’immediatezza (e, da qui, risulta essere così vuota) che viene semplice accostare a diversi tratti che marcano il nostro presente.
Molte volte è stato giustamente posto l’accento sulla capacità di Warhol, nato nel 1928 in Pennsylvania, di coniugare la cultura alta a quella popolare. Difatti, è un elemento che si ritrova in tutti i momenti principali in cui si può suddividere la sua carriera che, dagli anni Cinquanta, si snoda fino al 1987, momento in cui, a seguito di un intervento chirurgico alla cistifellea, venne colto dalla morte a soli 58 anni.
Per quanto detto, va da sé che anche la mostra Andy Warhol – Pop Art Revolution, ospitata fino al 13 aprile dal Museo del Presente di Rende (Cs), focalizzi l’interesse sulla capacità di ridefinire i confini artistici e sulla forza anticipatrice dell’opera warholiana.
L’esposizione è curata da Gianfranco Rosini della Rosini Gutman Collection – Iconars ed è organizzata da Mazinga Eventi – Art Exhibition. Inoltre, la co-curatela è di Marilena (Maria) Morabito e, finanziata con risorse Pac 2014/2020-Az. 6.8.3, gode del patrocinio del Comune di Rende.
L’iconicità di cui poc’anzi si richiamava la natura può essere facilmente presentata attraverso un lavoro, Campbell’s Soup Cans, che immise Warhol nel panorama artistico coevo e che, di conseguenza, esercita un ruolo centrale anche nella mostra sopraccitata.
La riproduzione della zuppa Campbell vide la luce nel 1962. L’idea di fondo – che sembra fosse stata suggerita da Muriel Roberta Latow, proprietaria e designer della Latow art gallery – era quella di trarre ispirazione dagli oggetti che connaturavano il vivere quotidiano delle persone. Da qui, la scelta di Warhol di tendere verso l’utilizzo di quelle specifiche lattine che, tra l’altro, gli facevano tornare subito in mente anche i suoi ricordi d’infanzia. È soprattutto quest’aspetto che fa protendere verso la praticità di una scelta siffatta. Dunque, non si trattava di una mera celebrazione del consumismo, ma la finalità era la rievocazione e il richiamo dei tratti della quotidianità tramite un qualcosa che tutti vedevano e incontravano.
In tal senso, è opportuno notare che nelle riproduzioni warholiane non c’è spazio per divaricazioni rispetto all’originale. Quanto viene riprodotto gravita attorno al concetto di fedeltà. Così, il termine entro cui si può far convogliare questa modalità d’osservazione (e di produzione artistica) è ripetere. Infatti, attraverso la replica (compiuta in modo meccanico, seriale) si cercava di attirare l’osservatore. A ben vedere, si trattava dello stesso processo posto a monte dell’agire pubblicitario, che aveva come fine il voler cogliere l’attenzione dei consumatori.
Le riproduzioni suscitarono prontamente l’interesse di Irving Blum, un commerciante d’arte. Così, da lì a poco, il 9 luglio 1962, alla Ferus gallery di Los Angeles, venne inaugurata la prima mostra di Warhol. A tutti gli effetti, la Pop art, che spostava l’attenzione dello spettatore verso la cultura popolare, si era ormai ritagliata ufficialmente la sua parte consistente nel costellato panorama artistico novecentesco. Anche per gli elementi appena esposti, la Campbell’s Soup Cans era l’opera preferita di Warhol. Da qui, il serialismo venne riproposto sovente negli anni successivi.
Nelle diverse spiegazioni che accompagnano il visitatore nelle stanze in cui è allestita la mostra, viene chiarito come la produzione di massa provocò i noti accesi dibattiti (che tardano ancora a cessare) sul ruolo dell’artista e sull’originalità di un’opera gravitante attorno a elementi del genere. Eppure, vale la pena evidenziare come la notorietà di Warhol si basi ancora oggi anche (e, per certi versi, soprattutto) proprio su questa discussione.
Considerato tale aspetto, si comprende con più semplicità come la serigrafia sia stata senza alcun dubbio la tecnica che ha caratterizzato più di tutte l’opera warholiana. Del resto, permetteva di concretizzare quei concetti di semplicità, di velocità e di riproducibilità tanto cari a Warhol.
Da questo punto di vista è inevitabile citare, per esempio, la celebrazione di Elvis Presley e, ancor di più, la rinomata Marylin Diptyoh, una delle opere più famose dell’intera Pop art, che, prendendo le mosse da una foto estrapolata dal film Niagara, raffigura la diva hollywoodiana Marilyn Monroe.
Eppure, al di là di questi elementi più noti, Andy Warhol – Pop Art Revolution getta luce anche sulla sfera più intima di Warhol. In merito, corrono in soccorso, per esempio, le seriografie Flowers, create nel 1964 a partire da una foto di fiori di ibisco scattata da Patricia Caulfield.
Nella mostra si mette in netto risalto pure la spontaneità e la conseguente assenza di esitazioni che caratterizzano la produzione warholiana. A tal proposito, vale la pena richiamare la sua rivista Interview, fondata nel 1969, che raccoglieva, per l’appunto, le interviste complete (cioè, nella loro durata effettiva, senza alcun taglio) a celebrità dell’epoca.
Difatti, Warhol mostrò interesse non solo per l’arte figurativa, così com’è noto, ma anche per la musica e per il cinema, riuscendo spesso a far convergere queste sue zone d’influenza. Del resto, dal 1949 al 1987 disegnò ben 60 copertine di dischi.
Dall’osservazione odierna emerge a chiare lettere come Warhol capì quanto, in una società sempre più consumistica, l’immagine fosse fondamentale anche nell’ambito musicale. Non solo: le copertine musicali erano un volano straordinario per i suoi lavori. Dunque, non sorprende che lavorò a illustrazioni siffatte fino alla sua morte.
I colori e le immagini spaziano e si confanno a diversi generi, dal jazz al pop, passando per la musica classica e il rock. Nella mostra si possono ammirare le cover originali firmate da Warhol di album quali Made in Italy di Loredana Bertè, Aretha di Aretha Franklyn, Rock bird di Debbie Harry o Live at Carnagie Hall di Liza Minnelli.
Così, è inevitabile, che tra i numerosi elementi di interesse che si incontrano, ampio spazio viene dato anche all’iconica copertina del disco d’esordio dei The Velvet Underground & Nico spesso semplicemente chiamato “banana album” che contiene canzoni intramontabili quali I’m Waiting For The Man, Heroin o Sunday Morning.
Inoltre, non manca l’accento riposto sul sodalizio tessuto con il celeberrimo gruppo The Rolling Stone che Warhol incontrò nel 1963, in un periodo antecedente alla fama che li travolse da lì a poco. Oltre alla provocatoria copertina di Sticky Finger e a quella dell’album Love you live, il visitatore può vedere le serigrafie di Mick Jagger pubblicate nel 1975 (e alcune copertine di Interview in cui compare proprio il leader del rinomato gruppo britannico).