Tante e sostanziali sono le differenze che creano un divario tra la generazione dei nostri nonni, o comunque degli anziani di oggi, e la nostra. C’è, però, un certo legame che fa da filo conduttore tra queste, cioè la possibilità che noi giovani ancora abbiamo di conoscere gli aspetti di un mondo ormai molto lontano dal nostro oltre che per gli usi e le mode, anche e soprattutto per le grandi difficoltà che hanno attraversato le vite di tutti coloro che sono nati ed hanno vissuto la loro gioventù tra gli anni ‘30 e ‘40 del secolo scorso, come ad esempio quella di Francesco, per me sempre “nonno Ciccio” - che avrei voluto intervistare ma non potendo ne riporto i racconti rimasti in me intatti ed intensi - il quale all’età di appena vent’anni è stato chiamato al fronte per combattere la seconda delle due guerre mondiali, un po’ come tutti i ragazzi a quell’epoca, consapevole che il suo futuro era incerto e che forse non avrebbe rivisto più la sua casa, i suoi familiari, il suo paese.

Uno dei suoi tanti racconti mi è sempre rimasto impresso, e parlava proprio del periodo in cui era militare, raccontava di come era costretto a cibarsi, utilizzando la cosiddetta “gavetta”, una sorta di scodella che poi doveva lavare con acqua e sabbia, col rischio di contrarre anche infezioni, dunque scenari che fortunatamente la nostra generazione non vive e spero non viva mai, ma di cui io stesso mi sono reso conto appieno poiché a raccontarmelo era una persona che con quegli occhi aveva visto tutto ciò, toccando con mano in primissima persona le brutalità della guerra e di un mondo che anche tra le sue parole appariva grigio, dove l’unico vero obiettivo era quello di sopravvivere e tornare sano e salvo a casa e poter, così, costruire il proprio futuro, percepito in quel momento come la cosa più insicura.

Ma al racconto di mio nonno lego quello di sua moglie, mia nonna Tina, la quale insieme alla sua famiglia durante gli anni duri della guerra, raccontava, che fu costretta a trovare riparo ai piani bassi della casa di campagna, quindi non potendo vivere appieno gli anni belli della gioventù.

Un altro aspetto che ha contraddistinto notevolmente il Novecento è stato il grandissimo flusso migratorio degli italiani in diversi Paesi del mondo ed in particolare nelle Americhe, tra quei migranti ci fu anche Gennaro, il mio nonno paterno, che lavorò in svariate parti del mondo tra cui l’Australia, gli Stati Uniti, l'Argentina, per poter mantenere i suoi sei figli e dare loro un futuro.

Proprio in Argentina intorno agli anni ‘50 mio nonno, che era un ottimo musicista, cantando guadagnò 60 milioni di pesos grazie ai quali riuscì ad acquistare la casa qui in Calabria dove andare a vivere con mia nonna Rosina ed i suoi figli, dovendo però continuare a partire per lavorare, e mi ha sempre colpito la grandezza di un sacrificio tale da dover rimanere lontano da casa per tanto tempo, sapendo, però, che tutto ciò serviva a dare un avvenire dignitoso ai propri figli, in un tempo in cui condizioni di vita come quelle che oggi conosciamo erano molto lontane, specialmente nel Meridione dove vivere o sopravvivere è stato sempre più duro rispetto ad altri contesti regionali d’Italia.

Non posso che reputarmi, dunque, fortunato di aver avuto figure di riferimento così significative, dalle quali ho imparato tutto, assorbendo valori che oggi fanno parte di me, grazie ai quali riesco ad portare sempre con me la loro presenza ed il loro affetto, pur non potendoli più abbracciare.